Since She di Dimitris Papaioannou, “una lettera d’amore a Pina piena di rispetto e nostalgia”
5 min di letturaCatanzaro, 15 settembre 2019. In scena al Teatro Politeama “Mario Foglietti” lo spettacolo di danza Since She di Dimitris Papaioannou con il Tanztheater Wuppertal Pina Bausch. Una première italiana in occasione dei dieci anni dalla morte della Bausch inserito nel cartellone di Armonie d’Arte Festival diretto da Chiara Giordano. Il Festival , giunto alla sua XIX edizione, è ormai una eccellenza italiana con riconoscimenti a livello internazionale e con una qualità e una diversificazione dell’offerta culturale che, negli anni, hanno raggiunto livelli di estrema raffinatezza attraendo un pubblico sempre più esigente e attento alle proposte artistiche della Giordano.
L’omaggio di Dimitris Papaioannou alla madre del Teatro-Danza, icona indiscussa della contemporaneità, si è concretizzato in una settima di eventi con workshop, proiezioni , seminari, conversazioni e conferenze/dibattito che hanno trasformato la città di Catanzaro nella capitale mondiale della Danza.
“Una lettera d’amore a Pina piena di rispetto e nostalgia”, così il grande artista greco, primo coreografo esterno ad essere ospitato dal Tanztheater Wuppertal per lavorare su un’opera completa, definisce Since She – Da quando lei.
E la cifra stilistica di Papaioannou si rivela nel segno della continuità e della rottura. Egli plasma ogni danseur con una impronta che è inequivocabilmente sua. I movimenti misurati, mai straripanti riflettono la sua concezione del corpo come strumento e la sua idea di spoliazione da molte componenti per arrivare alla semplicità del gesto quale elemento di potenziamento espressivo. L’uso rigoroso e flessibile di ogni singola parte del corpo acquista una tensione quasi primitiva, una forza penetrante ma sempre di estrema eleganza mentre la capacità di variazioni con scatti minimi nelle movenze delle mani, delle braccia, delle gambe, del busto funziona come punto sospeso, quasi pausa riflessiva da cui riparte tutta la grammatica espressiva laddove la coralità dell’intera performance nasce proprio dalla perfezione e compiutezza individuali.
La cupa bellezza della scena nera e scarna di Tina Tzoka è percorsa da guizzi di colore. Il verde brillante dell’albero piantato in cima a una roccia di cui se ne indovinano le asperità pur nella mollezza palustre che inghiotte corpi striscianti lungo il declivio. L’oro dei piatti e della vernice che squarcia il lutto di fascianti tubini, il bianco pentelico di impalpabili vesti ondeggianti.
Una lunga teoria di sedie si snoda lungo il proscenio, chiaro tributo a Café Müller della Bausch. Un binario mobile costruito a vista dai 17 danza(t)tori che lo percorrono in equilibrio come acrobati sul filo teso.
In un milieu onirico si materiano le visioni pittoriche di Papaioannou in tranches che si innestano l’una nell’altra, senza accumulo, ognuna col suo significato per una partenogenesi senza fine. Slow motions e parossistico vorticare di oggetti, corpi abbandonati per terra, andature e passi veloci, linee oblique o striscianti disegnate sul pavimento, una gamma inesausta di movimenti, gesti, rotazioni e vibrazioni che inducono nello spettatore una disponibilità quasi erotica ad assorbire la serie di immagini e flash che nascono e muoiono quasi istantaneamente.
Scene bibliche pervase da sottile ironia e ambigue divinità orientali con cinque paia di gambe, anime in pena di dantesca memoria che scivolano o arrancano lungo il dirupo roccioso, tavoli che si trasformano in barche cariche di umanità senza speranza su tubiformi mari d’acciaio o in vagoni stipati di ombre per un viaggio senza ritorno, pazienti anestetizzati su tavoli lugubri e schiavi in catene rattrappiti in gesti automatizzati. E ancora diafane ninfe botticelliane e femmes fatales adorne di teste di Minotauro o nimbate di aureole come madonne bizantine, una donna -serpente che muta abito/pelle. Prona, si trascina lentamente mettendo in evidenza un particolare gesto delle mani mentre si aggetta sull’impercettibile ripiegarsi e rialzarsi e stendersi ancora del busto, una donna-farfalla, avvolta in un abito/bozzolo, fluttua leggera nell’aere sospinta dal soffio di cicisbei serventi e il volto femminile di Dio cammina su acque metalliche.
Figure asciutte, taglienti quasi, eteree e sottili, ieratiche o scolpite, flessuose e sensuali.
Il nudo irrompe sulla scena impietoso e pudicamente indifeso. È la rivolta del corpo che chiede alla danza un linguaggio massimamente spoglio. Yin e Yang, l’uomo-caprone che vagola guarnito di campanacci sonanti con le braccia infilate ad angolo retto in lunghi tubi, uno scultoreo Perseo che brandisce vittorioso la testa fiammeggiante di Medusa mentre una Venere, in posizione fetale, nasce da un profluvio di chiome scure come la notte.
Sublimazione dell’estetica della crudeltà che affida il rito della nascita a un simbolo fallico esibito con candore e ad un uovo spadellato in una cucina brulicante di femminile operosità. Un eros irresistibile serpeggia sulla scena: ora più gioioso e vitale, ora più grigio e lento ora più violento e tormentato.
Una danza fortemente drammatizzata con scelte gestuali silenziose e simbolizzate in un universo sonoro che abbraccia Christos Constantinou, Richard Wagner, Charles Ives, Johann Sebastian Bach, Aram Khachaturian, Gustav Mahler, Giya Kantcheli, Marika Papagkika, Wayne King, Leo Rapitis Manos Achalinotopoulos, Sergei Prokofiev, Giuseppe Verdi, Tom Waits con sapienti inserti dal vivo di fruscii, colpi, tonfi, clangori, scoppi.
I volumi di buio e le ombre proiettate attorno dal severo disegno luci di Fernando Jacon e Stephanos Droussiotis, scompaiono per l’accendersi dei riflettori in un sottofinale carico di simboli e allusioni che dinamicamente animano lo spazio fino alla stasi ultima, rappresentazione plastica – insieme affascinante e brutale – del Martirio di San Sebastiano che tanto ricorda l’opera omonima di Gaudenzio Ferrari mentre, in controscena, le frecce del martirio diventano raggi di aureola tra i capelli di una Madonna Nera.
Il mistero della nascita, la nudità dell’uomo nella natura, lo sguardo distaccato, l’assenza di segni di emozione, i miti e la storia, il sacro e il profano, l’amore, la violenza e la morte si stendono in tutta la loro potenza con una ferocia che ha solo limite la bellezza.
Un capolavoro assoluto con la vita dentro.
Giovanna Villella
[ph Julian Mommert. Courtesy Armonie d’Arte Festival, Catanzaro]