Vacantiandu. L’incantesimo del Teatro in “Miseria e nobiltà” con Lello Arena
6 min di letturaLamezia Terme, 22 gennaio 2020. Grande successo al Teatro Comunale Grandinetti di Lamezia Terme nell’ambito della rassegna Vacantiandu 2019.2020 per lo spettacolo Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta, con Lello Arena, regia di Luciano Melchionna, produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro.
Uno spettacolo imponente, rinnovato anche nel linguaggio attraverso l’adattamento scenico firmato da Lello Arena e Luciano Melchionna che, pur non rinunciando alle sonorità voluttuose e all’opulenza della lingua napoletana, hanno optato per una riscrittura più moderna con inserimenti di battute “alla maniera di Scarpetta” e incursioni nella contemporaneità: immigrazione, razzismo, declino della cultura, lavoro minorile, individualismo…
La regia visionaria e immaginifica di Luciano Melchionna, con tagli e inquadrature da cinema, ci regala un allestimento tetro e fastoso insieme, facendo slittare nel simbolico i contenuti e le immagini che ricrea dal testo. Un mélange riuscitissimo tra le atmosfere dark alla Tim Burton, l’universo fiabesco di Walt Disney e qualche tocco di metamorfosi magica alla Giambattista Basile.
Un viaggio tra la vera miseria e la falsa nobiltà che si materia visivamente sulla scena nel complesso décor di Roberto Crea. Una impalcatura di tubi metallici da archeologia industriale distribuita su più livelli, con piattaforme rialzate a perimetrare idealmente i vari ambienti rende il senso del fatiscente. Su di essa poggia l’elegante palazzo signorile. Due mondi apparentemente distinti eppure indissolubilmente legati.
In un buio e opprimente sottosuolo, di dostoevskiana memoria, abitano esseri che sembrano appartenere alla specie subumana. Esseri in trappola come topi che strisciano nei cunicoli e si contorcono per i morsi della fame. Sottosuolo che diventa negazione della vita e della dignità umana dove l’assenza di luce, di calore e di cibo esaspera gli animi di chi vi abita.
Concetta, interpretata da una matronale e sgrammaticata Giorgia Trasselli, destruttura, deride, deforma le parole con candore disarmante creando nuove gerarchie di senso, Pupella emaciata, spaurita e servizievole è perfettamente incarnata da Irene Grasso, Luisella con arie da gran dama plebea, poco disposta alla solidarietà con gli altri emarginati, è superbamente disegnata da Maria Bolignano. E poi c’è lui Felice Sciosciammocca, la maschera borghese del teatro di Scarpetta a cui Lello Arena imprime la forza e il carattere di un personaggio a tutto tondo. Si presenta in scena come un patriarca detronizzato, con la dignità della propria miseria, a dispensare ironia e disincanto, capace di convivere a suo agio su quella delicata linea di confine tra farsa e tragedia. Il suo deuteragonista è Pasquale nella mirabile interpretazione in chiaroscuro di Andrea De Goyzueta che sembra adombrare il perenne infantilismo dell’artista perdente che non ha mai raggiunto il successo. Menzione speciale a Veronica D’Elia Peppeniello tenero e impertinente. Uno scugnizzo alla maniera di Viviani per la vivezza dei gesti, delle movenze sceniche e della recitazione quasi espressionista, ma dotato di matura consapevolezza nel rivendicare i propri diritti di fanciullo: “Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite colorate.”. Esplicito e commovente omaggio al giovanissimo pakistano Iqbal Masih, simbolo della lotta contro il lavoro minorile.
Personaggi in conflitto permanente, sempre sull’orlo di un abisso, naturali e sconvolgenti, passionali e indifesi, miti e violenti. Una fauna umana affollata in una zona di solitudine collettiva che ritrova unità/umanità intorno a quel tavolo, nella scena finale del I atto, con gli spaghetti che piovono dall’alto come manna dal cielo. Scena orbata della rituale convivialità e vissuta con uno stupore senza gioia. Eppure in questo universo deprivato di tutto non c’è tragedia. Al contrario vengono esaltati i momenti in cui l’assurdo dei dialoghi diventa comico o ridicolo anche se i personaggi si agitano nell’angoscia dei propri incubi quotidiani e lo fanno portandosi dietro una loro buffoneria, quella sì vagamente tragica.
Il loro ingresso nel palazzo nobiliare per adempiere alla farsa che sono tenuti ad inscenare avviene attraverso una botola che si apre dal pavimento come dal ventre sterile della terra, in una metaforica ascesa dal regno dei morti a quello dei vivi. E mentre quella piccola corte ridanciana e appariscente fa la sua entrata nel mondo dei ricchi, il sottosuolo continua a intravvedersi come una ferita aperta, mostrando Luisella esclusa dal gioco e covante, in appartata cupezza, il coup de théâtre finale. Unico personaggio, in questa lettura, ad esprimere – con brutalità – una verità diretta.
Nel bianco accecante del salone addobbato a festa si affolla un’altra umanità non avvezza a rinunce e sacrifici. I personaggi si muovono in un ambiente immerso in un bagno di luce con repentini cambi di colore a ritagliare atmosfere o a sottolineare stati d’animo. Luciano Giugliano impone al parvenu Gaetano movenze quasi marionettistiche e una comicità espansa che esalta una sua vocazione all’irruenza mattatoriale mentre il Vicienzo di Alfonso Dolgetta si misura nei particolari e nei piccoli gesti di attenzione.
L’universo femminile è affidato all’appeal di Marika De Chiara che risolve la noia e i capricci della giovane Gemma alternando pose da sophisticated comedy alla Audrey Hepburn ad una sensualità sincopata giocata sul filo di una maliziosa ironia e alla carica melodrammatica di Carla Ferraro, una Bettina algida e fiera, capace di passare dalla granitica asciuttezza alla rabbia esplosa disvelando un cuore di donna ferito dall’amore.
A completare la pletora dei personaggi Fabio Rossi nel doppio ruolo dello spavaldo padrone di casa Gioacchino Castiello e del nobile libertino Marchese Ottavio Favetti, alias Bebè, reso con viscida mollezza e toni bassi e monocordi mentre si consuma d’amore senile per Gemma; Sara Esposito che disegna un Luigino di grafica agilità, tracimante e felicemente privo di freni inibitori nel manifestare con energia mascolina il suo amore per Pupella; Raffaele Ausiello che ben caratterizza il marchesino Eugenio, dandy fatuo e ridondante, con qualche punta di femminea nevrastenia e il vezzo di agitare il morbido caschetto biondo come un ballerino di fila dei favolosi Anni ‘60.
Uno spettacolo che ha la potenza di un affresco corale dove ogni attore ha il suo momento da protagonista anche quando sta nel suo angolo, senza sconfinare in controscene disturbanti.
I costumi, quasi scultorei, firmati Milla, strizzano l’occhio ad un Ottocento reinventato con dettagli che diventano elementi di lettura della nostra contemporaneità.
Vivificando un testo che ancora oggi arriva dritto al cuore del pubblico, Luciano Melchionna, da sensibile cesellatore di identità sociologiche e psicologiche, unifica nell’incantesimo dell’artificio scenico due mondi, due visioni della vita distanti e inconciliabili che, al di là dell’apparenza e delle convenzioni sociali, condividono in egual misura miseria morale e povertà spirituale.
Il pubblico applaude. Moltissimo. E sentitamente ringrazia il Teatro che sa ancora regalare emozioni.
Al termine del spettacolo il consueto omaggio della tradizionale maschera, simbolo della rassegna Vacantiandu che il direttore artistico Nico Morelli e il direttore amministrativo Walter Vasta hanno consegnato a Lello Arena.
Giovanna Villella
[ph_Pasquale Cimino]