«E cchi vinni ‘a Ripubbrica!»
2 min di letturaÈ interessante rilevare, a proposito della Cosa pubblica, che essa non ha avuto, a livello storico-antropologico, una voce unanime di condivisione
Repubblica, sul piano proverbiale, almeno dalle nostre parti, è sinonimo di “disordine, confusione, trambusto, scompiglio”.
È, questa, una percezione che echeggia da lontano e che, verosimilmente, ha qualche relazione con gli Alberi della Libertà, innalzati in tanti Comuni del Sud, al tempo della Repubblica partenopea, quando le masse sospinte dalle bande del card. Ruffo, si sollevarono contro le truppe francesi capeggiate dal generale Championnet, schierandosi a favore di Ferdinando I di Borbone. Non è senza significato che, nelle prime elezioni politiche svoltesi in Italia, a partire dal 1946, il Partito Monarchico abbia ottenuto sempre una notevole affermazione.
A Sambiase, poi, giusto per un riferimento, mediato da una testimonianza autorevole, che generosamente me lo ha partecipato, senza filtro alcuno, vinse la Monarchia con larghi di consensi di voto.
Mi verrebbe da concludere che noi Meridionali, molto probabilmente, non sappiamo liberarci dai tiranni e dai governi monarchici: questo sì che è un peccato! Eppure andiamo ripetendo con Alfieri che:
«Tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo».
A proposito, a volte, rileggendo questa titanica pagina della nostra letteratura settecentesca, mi chiedo se, al di là dei governi, abbiamo mantenuto una buona dose di servilismo ad Unità ultimata: non serpeggia ancora un’indignatio nei confronti di una politica di palazzo che del demos fa sgabello per la propria poltrona? Rex e lex in latino sono lemmi incipienti con due liquide pressoché simili: non è che il potere, in perfetta consonanza, sa liquidarci con un lessico altrettanto dissimulatore, da farci felici e contenti, in un gattopardismo da far paura?
Prof. Francesco Polopoli