I tamarri arricchisciuti…
3 min di letturaChe il tamarro indichi una persona dai modi e dall’aspetto rozzi, volgari, villani è risaputo nella definizione più nobile della comunicazione linguistica: c’è, tuttavia, un’espressione sboccata che lo mette in guardia, laddove nella vita dovesse accedere ad un’inattesa escalation sociale. «Culu ca ‘un n’ha bistu mmai cammisa, ‘a prima vota ca s’ha mintuta s’ha cacata», come per dire i modi gentili o ce li hai o non ce li hai, a maggior ragione se dovesse capitarti di vestire panni che ti sono stretti per personale insufficienza.
Non si condanna il cursus honorum, ci mancherebbe: se mai, il modo d’essere che non si plasma, se non educato alle buone maniere, «’U culu c’un’ha bbistu mai cammisa, quannu si l’ha misa “voze” chiamato “Don Culo”»: è la voce crotonese che, letteralmente, significa «il culo che non ha mai visto camicia, quando la indossa pretende di essere chiamato “Don Culo” o “don Popò”».
Fuor di metafora s’intende esprimere che chi ha vissuto miseramente, qualora dovesse arricchirsi, diventa così superbo da pretendere, e per giunta con fare arrogante, il titolo di gran signore. C’è da dire che il fenomeno sociologico è noto fin dalla remota antichità della nostra classicità: nel sesto secolo a.C. Teognide assiste impotente alla crisi sociale della polis, alla decadenza e al crollo del proprio mondo aristocratico sotto la spinta del popolo e della borghesia, lamentandosi dell’usurpazione del potere da parte dei nuovi ricchi, del tutto estranei ai principi della nobiltà.
Una chiara denuncia è persino presente in Aristotele (Retorica, II). Luciano stesso, poi, nei Dialoghi dei morti parla di un Polistrato, leggiadro garzone frigio, già annoverato fra i patrizi e che si ritiene più blasonato di Codro.
Che dire dei parvenu del mondo romano: la figura di Trimalcione nel Satyricon di Petronio si commenta da sola al riguardo. Il fenomeno dell’ostentazione dello status sociale attraversa tutto il Rinascimento, quando le nuove famiglie facoltose, come i De Medici (le cui fortune borghesi originavano nella mercatura e nel cambio), o come i Chigi (all’inizio, banchieri), si servirono dell’arte come strumento privato di dimostrazione del prestigio acquisito.
Ora, in un quadro così variegato, quanto infastidiva le corde della gente era per l’appunto l’atteggiamento, dissimulato su movenze e posture da siparietto: per di più l’insensibile cesura mostrata nei confronti delle proprie origini vestiva quella labile ontologia, che è tanto più irrispettosa quanto più è slegata dalle radici.
Si cementa il potere, come riscatto dal servizio: con le opportune diversificazioni, il rischio è proprio all’angolo, e non poche volte. Ecco perché le nostre nonne dicevano: «Prega Ddiu cumu si vascia e non llu tamarru cumu si àuza». Evidentemente il censimento del problema portò a coniare un’invocazione per arginare tanti Padri eterni circolanti per strada, benché la loro esistenza, precedentemente ed umilmente, fosse stata spesa tutta on the road.
Prof. Francesco Polopoli