«Non valere una cicca»: come dirlo in dialetto…
2 min di letturaTroppo francesismo (dal fr. chique, der. di chiquer «ciccare») per esprimere che qualcuno o qualcosa valga poco o nulla
Il nostro dialetto risulta essere molto più espressivo, ah voglia!!! Tutto è partito dalle nostre nonne, pensate un po’!
Quando solerti andavano in cerca di verdure lungo i bordi delle strade per poi cucinarle insieme alla carne di maiale, ritornavano a casa «ccù llu mantisìnu chjinu ‘i cicuari, cardelli, talli, lapristi e custati ‘i vecchia»: la «minestra in terra», praticamente!
Da qui nasce il detto «‘un bbàli mancu ‘na cardella»: sicuramente la scelta è caduta sul cardo mangereccio, poco pregiato e di scarse proprietà nutritive, per significare metaforicamente che ci si trova di fronte ad un individuo di scarsissimo valore. Il campione dell’inettitudine, se ci fosse un bel fermo immagine!
Una precisazione: il discorso è ovviamente diverso se stiamo parlando della figura dell’inetto in Svevo o in Musil, o se ci si vuole ricondurre a quella figura; in quel caso si parla proprio di una generale attitudine verso la vita, che nel nostro idioma è completamente estraneo, giusto per chiarirci.
Resta sincera la considerazione secondo cui persone di questo conio «’un bbàlinu nnè pp bbàttari nnè ppì bbùllari», cioè «sono pezzi di carne che non possono essere utilizzati né per cotolette né per bollito»: altra espressione culinaria che si mastica per tutti quelli che, dovunque vengano messi ad operare, diano sempre cattiva prova, dimostrando di essere inefficaci ed inefficienti.
Diamoci una mossa, allora! Un pizzico di sale in più parte anche da un gesto di buona volontà…
Prof. Francesco Polopoli