Il monaco…in qualche nostro dialetto
2 min di letturaNon è l’ora di catechismo in rime, cui eravamo usi mentre ricostruivamo una vita straordinaria: chiamava sorelle / la luna e le stelle / fratelli il fuoco e il vento / ed era felice e contento / di amare ogni creatura / e del lupo non aveva paura. / Era giovane, ricco, bello / e diventò un povero fraticello. / Giotto lo dipinse in un affresco. / Il suo nome era Francesco.
Tuttavia, certi della pazienza certosina, che suscita l’abito talare, un po’ per tutti, noi lametini diciamo «cci vò llu mònacu d’ ‘a pacìanza!», che si suole dire, talora, per esprimere che, quando ci si trova in una situazione di difficoltà, anziché abbattersi, occorre trovare in sé la forza di reagire, di prenderla filosoficamente.
Al di là di questo, forse per un nostro particolarissimo italum acetum, ci lasciamo prendere anche da una certa dose di humour come in curiose cantilene infantili di questo conio: «c’era ‘nnu mònacu capuccinù chi sunava llu mindulìnu!», «c’era un monaco cappuccino che suonava il mandolino», oppure «mònacu, mònacu d’abbatìa, / perdi lla chjàv’e lla vò ddi mìa; / t’hàju dittu ca ti l’accàttu, / mònacu, mònacu, vòtati pazzu!», come dicono delle filastrocche che i fanciulli d’una volta si mettevano a canticchiare ad alta voce, non appena accadeva loro di veder per istrada un qualche religioso con croce e cordicella. Poi sono venute le barzellette ecclesiali…
Prof. Francesco Polopoli