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Da Muraca proposta di modifica della norma al Piano di riequilibrio finanziario pluriennale

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Il mese di Marzo è cruciale per i Comuni, che in questo periodo predispongono i bilanci

Comunicato Stampa

Tantissimi Comuni italiani, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, sono in affanno finanziario. La Corte Costituzionale, con la sentenza n.115 del 23 giugno 2020, ha sancito l’incostituzionalità della norma che consente di rimodulare i piani di riequilibrio finanziario degli enti locali, spalmando il debito fino a 20 anni.

La Corte ha osservato che la possibilità di rimodulare i piani già in essere non può estendersi al punto tale da ritenere ammissibili modifiche finalizzate a differire ulteriormente il rimborso del debito rispetto a quanto precedentemente approvato, in tal modo liberando risorse finanziarie per la spesa corrente a danno degli accantonamenti annuali programmati.

Il rischio, rilevato dai giudici della Consulta, è quello di violare il principio dell’equità intergenerazionale, compromettere la fiducia dei cittadini nelle amministrazioni locali ed ostacolare l’attività di controllo e monitoraggio della Corte dei Conti sull’effettivo perseguimento dell’obiettivo del pareggio di bilancio.

Tale pronuncia, che ricalca parzialmente quanto già stabilito con la sentenza n.18 del 2019, impone una riflessione sull’istituto del piano di riequilibrio finanziario pluriennale per gli enti locali (di seguito PRFP), previsto dall’art. 243-bis del TUEL. La ratio della disciplina è quella di consentire agli enti locali, “per i quali sussistano squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario”, di evitare la dichiarazione di “fallimento”, ristrutturando in toto o in parte il proprio debito attraverso la negoziazione di un accordo con i creditori.

Affinché possa acquisire efficacia, il piano deliberato dal consiglio dell’ente viene sottoposto al vaglio della Corte dei Conti, chiamata ad esprimersi sull’approvazione o sul diniego.

Secondo quanto risulta dal terzo Rapporto sui Comuni Italiani dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, ben 392 comuni – il 70% dei quali appartenenti alle regioni Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia – vi hanno fatto ricorso, dal momento della sua introduzione (DL n.174 del 10 ottobre 2012) al 31 dicembre 2019.

Tuttavia, il PRFP, così come ad oggi concepito, presenta un limite strutturale, che rischia di pregiudicarne la reale efficacia, riguardante il ruolo dei creditori nell’intero processo. A ben vedere, i creditori stessi sono coinvolti esclusivamente nelle negoziazioni bilaterali con l’ente debitore, senza che sia prevista la possibilità di raggiungere un accordo col ceto creditorio nella sua interezza. Ciò, se da una parte offre una tutela agli interessi particolari del singolo creditore, che può modificare i termini del rapporto contrattuale solo dopo una negoziazione che lo vede direttamente protagonista, dall’altra fa ricadere sulle spalle di uno o più creditori l’onere di dover effettuare concessioni a beneficio del debitore sulle scadenze e/o sul tasso d’interesse.

In effetti, i creditori nei confronti dei quali l’esposizione è in valore assoluto più contenuta avrebbero un forte incentivo a comportarsi da free riders, lasciando che ad assecondare le esigenze di flessibilità dell’ente in crisi siano i creditori che hanno fornito capitali più ingenti. Questi ultimi, infatti, hanno maggior convenienza nel raggiungere un accordo con l’ente, dal momento che un eventuale dissesto arrecherebbe un severo pregiudizio alle loro pretese creditizie.

Anche nella situazione limite in cui tutti i creditori dovessero trovare una sintesi negoziale col debitore, la disciplina attuale non garantisce in alcun modo che vengano pattuite condizioni tra loro eque, dal momento che le trattative con ciascun creditore avvengono su tavoli separati. Conseguentemente, non vi è alcun presidio ad assicurare che il sacrificio, in termini di dilazioni sui pagamenti e/o riduzioni del tasso d’interesse, sia sopportato da tutti i creditori in egual modo (e.g. riduzione del tasso del 40% per tutti). Né si può pensare che con le negoziazioni bilaterali si pervenga a accordi simili, considerata la diversa esposizione debitoria, il diverso potere contrattuale e le diverse negotiation skills dei creditori.

Per superare questo limite si potrebbe fare ricorso al meccanismo del cram down, già previsto dalla normativa fallimentare italiana nel concordato preventivo e, in materia di finanza pubblica, dal Chapter 9 del Bankruptcy Code statunitense con riguardo ai piani di ristrutturazione del debito promossi dalle municipalities.

Invero, se si offrisse all’ente debitore l’opportunità di stilare un piano, da sottoporre al voto dei creditori, che preveda le medesime condizioni di ristrutturazione per tutti, subordinandone l’efficacia erga omnes all’approvazione della maggioranza – calcolata in base al valore assoluto del credito stesso – dei creditori, le summenzionate criticità verrebbero meno. Difatti, nessun creditore avrebbe incentivo a produrre comportamenti opportunistici, volti ad alterare il principio della par condicio creditorum, e in ogni caso verrebbe garantito un egual trattamento a ciascuno di essi.

Una siffatta soluzione sarebbe positiva anche per l’ente in crisi, che potrebbe proporre un piano con più elevate probabilità di incidere sulla temporanea situazione di squilibrio finanziario, essendo coinvolto il ceto creditorio nella sua interezza. La proposta di un accordo si sostanzia in una “autodenuncia” delle difficoltà finanziarie dell’ente, che deve pertanto sfociare nel dissesto nel caso di mancata approvazione del piano o di sopravvenuta impossibilità ad eseguirlo nei termini pattuiti.

Per valutare l’impatto delle modifiche proposte, si consideri l’esempio di un comune con debiti pari a €1000, di cui €900 verso il creditore A al tasso del 10% e €100 verso il creditore B al tasso del 5%. Nell’attuale formulazione della disciplina, per l’ente si rende imprescindibile una revisione delle condizioni contrattuali col creditore A ai fini di evitare il dissesto. Si ipotizzi che, al termine delle negoziazioni, le parti trovino un accordo che preveda la riduzione del tasso d’interesse del 40%, dal 10% al 6%. Il creditore B non avrebbe alcun incentivo a rinegoziare le proprie condizioni, atteso che l’esposizione debitoria dell’ente nei suoi confronti è molto contenuta e, conseguentemente, meno gravosa.

Viceversa, nel caso in cui l’art. 243-bis TUEL fosse riformulato secondo il modello americano, l’ente potrebbe proporre all’intero ceto creditorio una riduzione del tasso pari al 40%. Il piano sarebbe approvato col voto favorevole del creditore A, che vedrebbe i propri interessi maturare al 6% invece che al 10%, esattamente come nella situazione precedente. La medesima riduzione verrebbe imposta anche al creditore B, il cui tasso scenderebbe dal 5% al 3% a prescindere dal suo voto. Si può facilmente constatare come, in questo secondo caso, l’ente debitore otterrebbe condizioni più favorevoli (la riduzione degli interessi del 40% sull’intero debito e non solo su €900), e tra i creditori non vi sarebbe nessuna iniquità, né incentivo al free riding.

Giova sottolineare che però l’autonomia negoziale non può estendersi al punto da consentire l’approvazione di un piano che violi il patto intergenerazionale, altrimenti la Corte Costituzionale potrebbe sollevare le medesime eccezioni di cui alla sentenza n.115 del 2020. Per scongiurare tale rischio, i limiti di durata di cui al comma 5-bis dell’attuale art. 243-bis TUEL offrono un’eccellente soluzione per tracciare i confini temporali entro i quali il piano di riequilibrio finanziario pluriennale deve necessariamente esaurirsi.

Per garantire il corretto svolgimento della procedura, dovrebbe essere concessa all’organo amministrativo dell’ente la possibilità di chiedere alla Corte dei Conti l’automatic stay, ossia la sospensione, già prevista dal comma 4 dell’art. 243-bis TUEL, di tutte le procedure esecutive intraprese nei confronti dell’ente fino alla data di approvazione o di mancata approvazione del PRFP.

Una riformulazione della disciplina così concepita avrebbe rilevanti implicazioni riguardo alla responsabilità degli amministratori degli enti locali, chiamati a rispondere in caso di danni per dolo o colpa grave. Sul punto preme evidenziare che devono considerarsi punibili tutti quei comportamenti, tenuti in fase di esecuzione del piano, volti a privilegiare/danneggiare uno o più creditori con pagamenti non in linea con quanto cristallizzato nel PRFP in termini di scadenze e ammontare. Gli amministratori sono da ritenersi altresì responsabili nel caso in cui in fase di execution non procedano tempestivamente alla dichiarazione del dissesto per impossibilità a far fronte agli impegni concordati.

Pertanto, condizionando la validità del piano al voto favorevole dei creditori, si otterrebbe anche un beneficio in termini di sburocratizzazione, dal momento che cambierebbe radicalmente il ruolo della Corte dei Conti, non più chiamata a deliberare in merito all’approvazione o al diniego del piano, ma soltanto a valutare il corretto svolgimento del processo e a monitorarne l’esecuzione.

In conclusione, si può affermare che l’istituto del piano di riequilibrio finanziario, per quanto offra una concreta e valida alternativa alla dichiarazione di dissesto, presenta ancora numerose criticità, che, se non risolte in tempi brevi, rischiano di pregiudicarne l’efficacia reale negli anni a venire, nei quali ci si attende una crescita esponenziale delle procedure per via della crisi scatenata dall’epidemia di Covid-19 che stiamo vivendo. In tal senso, la normativa statunitense, more solito più concretista di quella italiana, contenuta nel Chapter 9 del Bankruptcy Code, potrebbe rappresentare un modello virtuoso a cui fare riferimento.

Avv. Luigi Muraca

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