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Ospedale di Tropea: numeri di un deterioramento di matrice classista

7 min di lettura
ospedale tropea

Un singolare malessere sembra aver colpito la popolazione di Tropea e del suo circondario: il malessere dell’assuefazione

Comunicato Stampa

La società civile, un tempo in prima linea insieme all’associazionismo nella denuncia delle mancanze del presidio sanitario, appare oggi rassegnata e incapace di osservare con occhio lucido e imparziale quella che è una destrutturazione del diritto alla salute che non si è mai fermata e che, dati alla mano, non sembra vedere una fine all’orizzonte.

Soprattutto, vengono da più parti insabbiati sia il vero stato dei fatti di quello che un ospedale non è più da tempo sia le vere cause che ci hanno condotti a questo punto. A questo noi intendiamo sopperire, mettendo in luce quanto quello che sta succedendo nella sanità tropeana e calabrese (e, nondimeno, nazionale) sia il frutto di deliberate scelte politiche di natura classista, ovvero volte a privilegiare spudoratamente la classe sociale imprenditoriale e benestante a discapito della classe lavoratrice e di chi non ha le risorse per garantirsi una visita in un’altra regione d’Italia o in una clinica privata.

Cominciamo proprio con i dati riguardanti il nosocomio di Tropea. Nonostante le ristrettezze del piano di rientro, infatti, erano stati previsti dei servizi minimi che non sono stati, neanch’essi, implementati. Vogliamo riportare i posti previsti, per il nostro ospedale, dall’ultimo decreto commissariale (dca 30/2016) e stato dei fatti:

  • Ortopedia: 10 posti letto. Attualmente è presente un ambulatorio solo per 1 mattina alla settimana.
  • Medicina Generale: 20 posti letto. Attualmente presenta 3 medici e 12 posti letto.
  • Chirurgia: 10 posti letto. Attualmente il reparto è inesistente, di recente hanno attivato l’ambulatorio una volta alla settimana.
  • Geriatria con 10 posti letto. Attualmente non è esistente.
  • Oncologia medica con 8 postazioni per chemioterapia. Attualmente vi sono solo 3 medici, 4 infermieri ed 1 Oss.
  • Pronto Soccorso, con 3 postazioni con OBI. Attualmente i medici sono a tempo determinato, con il rischio perenne che il personale sanitario abbandoni il servizio per altre sedi.

A questo bisogna aggiungere che:

  • L’ambulatorio dell’otorinolaringoiatra è appena stato chiuso;
  • È stato soppresso l’ambulatorio di cardiologia perché, a seguito dell’emergenza Covid, il personale è stato mandato in medicina, facendo rimanere tanti pazienti letteralmente spiazzati;
  • In radiologia esistono i macchinari ma non i medici, così un paziente è costretto ad aspettare molto tempo per il referto, che deve essere fatto a Vibo Valentia o in un altro ospedale;
  • La direzione sanitaria è sempre chiusa perché personale in pensione non è stato rimpiazzato.

Riguardo al laboratorio analisi, c’è stata la soppressione della reperibilità notturna e festiva, ovvero il turno di pronta disponibilità dei tecnici di laboratorio; questo comporta un surplus di lavoro per il personale del Pronto Soccorso, il quale deve arrangiarsi da sé tramite il dispositivo POCT per eseguire tutte le analisi necessarie, che comporta impegno del personale del PC, tanti esami specialistici non vengono espletati perché questo non esegue tutte le analisi.

La domanda preponderante è, ovviamente: perché queste disposizioni non sono mai state messe in atto? Impossibilità di reperire risorse a causa dei tagli del piano di rientro? Diserzione, da parte dei professionisti, dei concorsi sanitari, spaventati dalle condizioni del pubblico e attirati dagli emolumenti offerti dal privato o da quelli dei contratti a prestazione? Ritardo colpevole da parte delle dirigenze in attesa di opportunità favorevoli per sostenere l’inserimento di personale “caldeggiato”? Non ci sono informazioni sufficienti per stabilire ciò. Sta di fatto che l’ASP di Vibo Valentia, come rivelano ambienti interni alla struttura, ha preparato un Atto aziendale che ricalca le direttive del dca del 2016 come proposta da presentare alla regione, ma questo ancora non è stato fatto. Quale che sia la ragione principale, la sostanza è che si continua a drenare risorse necessarie all’universalità del Servizio Sanitario per accontentare appetiti che vorrebbero trasformare la salute in azienda o in un “affare privato”. A discapito di chi avrebbe bisogno di un servizio gratuito senza conflitti di interesse, ovvero i ceti popolari.

Abbiamo citato i conflitti di interesse. Questi sono caratteristici, in generale, di un’azienda sanitaria dove la delega al privato è rappresentata da una fetta non indifferente dei servizi. La delega al privato comporta diverse potenziali disfunzioni: maggiore costo dovuto al profitto da riconoscere all’imprenditore sanitario, interesse, da parte del professionista o del politico che ha a che fare sia col pubblico che col privato, a smantellare il pubblico per lucrare maggiormente sulle cure, facilità, da parte delle cliniche convenzionate, di truffare l’amministrazione pubblica circa le prestazioni effettivamente offerte (abbiamo visto il caso di diverse cliniche in Calabria).

Un secondo problema del privato è costituito dal fatto che esso non si occupa di fornire servizi non perfettamente quantificabili in termini di profitto, che richiedono la terapia intensiva, della quale è puntualmente sfornito. La strategia “commerciale” è, sempre, quella di offrire le prestazioni più sicure e dalle quali si può calcolare il guadagno certo, attirando così medici e chirurghi allettati dalla maggiore sicurezza e dai pagamenti spropositati (che favoriscono i già citati contratti a prestazione nel pubblico), lasciando però al pubblico le pratiche più rischiose e dispendiose.

Il pubblico viene, per tutto questo, praticamente spremuto dal privato.

La domanda che sorge spontanea, osservando le condizioni in cui versa l’ospedale di Tropea, è: non sarebbe molto più razionale e conveniente trasferire le risorse utilizzate dall’ASP per le cliniche private accreditate verso un loro investimento negli ospedali pubblici?

Secondo la tabella degli importi contrattualizzati per le strutture private accreditate, riportata dal bilancio economico preventivo pubblicato nel 2021 dall’ASP di Vibo Valentia, si evince che la sola “Villa dei gerani”, l’ente accreditato più consistente, vede assegnati – tra prestazioni per acuti e post-acuti, APA-PAC e di radiologia 6.359.216 euro per l’anno 2020 e 5.931.756 euro per l’anno 2021. I laboratori di analisi privati 1.728.692 euro. L’intero personale sanitario dello stabilimento ospedaliero di Tropea costa circa 8 milioni di euro annui. Trasferire 6 milioni di euro per raddoppiare – o quasi – il personale di Tropea e far fare al nosocomio pubblico quello che è delegato al privato sarebbe un investimento a lungo termine nell’efficienza del settore pubblico e un disinvestimento da tutte le contraddizioni che, abbiamo visto, sono sempre potenzialmente presenti nel momento in cui un territorio viene letteralmente monopolizzato da pochi manager privati.

Ma, evidentemente, questa volontà non esiste, finendo per essere l’interesse del fatturato privato sempre prevalente rispetto a quello dell’universalità delle cure.

Abbiamo fatto riferimento, all’inizio, alle ristrettezze del piano di rientro. A tale scopo, osserviamo i dati di fatto riguardanti il contesto regionale.

  • Siamo al dodicesimo anno di piano di rientro sanitario. Durante questo periodo la sanità calabrese ha visto perdere, secondo il calcolo del sindacato Usb, ben 4000 unità lavorative e chiudere addirittura 18 ospedali. Al di là della propaganda del Presidente Mario Occhiuto, i posti nuovi riattivati effettivamente, al netto del fisiologico turnover, sono oggi pari a zero, anche perché i fondi provenienti dal PNRR sono destinati solo a strutture fisiche e macchinari e non ad assunzioni di personale. Il piano è, tra l’altro, molto indietro con le tempistiche.
  • Il dott. Giacinto Nanci, esperto di politiche sanitarie, ha spiegato di recente a mezzo stampa la ragione per cui il piano di rientro stesso sia illegittimo se l’obiettivo del SSN è assicurare ad ogni regione le risorse utili a mantenere il livello minimo di assistenza. La ragione è che il fondo sanitario (oltre diminuire in rapporto al Pil per i tagli operati ancora dai governi centrali) è distribuito alle regioni non a seconda del tasso di morbilità e comorbilità di un territorio ma a seconda della popolazione pesata per età. Poiché nelle regioni meno arretrate vi è una maggiore incidenza di anziani, ciò risulta in una penalizzazione soprattutto per quelle più arretrate come la nostra, costrette a indebitarsi per mantenere le cure essenziali. Per fare un esempio, l’ultimo riparto ha assegnato alla Calabria ben 400,5 euro pro capite in meno per ogni calabrese rispetto alla Emilia Romagna e, come scrive il dott. Nanci, visto che in Calabria ci sono 1.947.000 residenti, se avessimo avuto fondi come in Emilia Romagna (ma ne avremmo dovuti avere molti di più per i molti malati cronici in più presenti in Calabria) avremmo avuto ben 779 milioni di euro in più e visto che la costruzione di un centro di eccellenza costa al massimo 50 milioni di euro ne potremmo costruire più di 12 all’anno ed evitare la sproporzionata spesa dei viaggi della salute.

Perché nessuna realtà sociale o politica parla di questo scandalo, che condanna i ceti popolari dei territori meno sviluppati, proprio coloro che ne hanno più bisogno, a rinunciare di fatto alla sanità pubblica? Nessun esponente della classe dirigente regionale ha mai, neanche opportunisticamente, impugnato la questione sui tavoli governativi. La ragione sta nella mancanza di percezione del problema da parte dei ceti che essa rappresenta o nel pericolo che una sanità pubblica funzionante costituirebbe per il business della sanità privata?

Si tratta, probabilmente, di un insieme di questi fattori. Per questo non possiamo che denunciare il colpevole abbandono del distretto sanitario locale e della sanità regionale da parte di una classe dirigente legata, evidentemente, a logiche padronali e aziendaliste e che da lustri ormai non propone nessun cambio di direzione credibile ma soltanto continui sacrifici alla classe lavoratrice del settore sanitario e non solo.

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