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L’associazione Le Città Visibili in visita al Conservatorio Etnobotanico Mediterraneo di Sersale

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L'associazione Le Città Visibili in visita al Conservatorio Etnobotanico Mediterraneo di Sersale

Una domenica mattina tersa e limpida, a dispetto delle nefaste previsioni metereologiche, partiamo alla scoperta delle bellezze naturali di Sersale

Comunicato Stampa

Ci accoglie personalmente il dottor Carmine Lupia, esperto etnobotanico, fitosociologo, consulente scientifico del FAI, appassionato studioso e conoscitore del mondo vegetale che si occupa, inoltre, di tutela della biodiversità e di sviluppo sostenibile, di promozione delle risorse ambientali e paesaggistiche.

È sempre un piacere immenso godere della sua compagnia ed erudizione e ci stupisce sempre con notizie e curiosità che legano il passato di miti e tradizioni al mondo contemporaneo.

Varchiamo l’ingresso del Bosco Giardino Etnobotanico e veniamo subito condotti tra pini larici (il cui legname è stato impiegato per la costruzione della Basilica di San Pietro, dell’Amerigo Vespucci e della Cristoforo Colombo e dalla resina si ricavavano vari tipi di pece, nera e bianca, utilizzate per calafatare le barche), alberi della manna (quelli calabresi erano tra i più pregiati), eriche arboree, da cui si ricavano ciocchi utilizzati per le pipe e frasche per i forni…

Tra profumi di bosco e gialli autunnali, proseguiamo mentre il dottore Lupia ci racconta di San Leo di Bova/Africo, il santo peciaro, dell’uso della pece ai fornelli, per la cottura di carni ovine, dei pregiati prodotti autoctoni come il sesamo e lo zafferano, un tempo esportati in grande quantità…

Anche il carbone dell’erica e del leccio un tempo costituivano un’industria locale fiorente e intanto ci distrae la roverella, che produce una gran quantità di ghiande, utilizzate nel passato per curare scabbia e malaria, per tingere i tessuti ma anche per preparare il pane di ghiande e, una volta torrefatte, la ciofeca.

E… chi l’avrebbe detto che fino al 1940 la nostra regione esportava al nord copiose scorte di ghiande per ciofeca?!

Le sorprese non finiscono qui: osserviamo la rosa canina, sostanzialmente il primo sugo prima dell’avvento del pomodoro; ebbene sì, le sue bacche, cotte, hanno il sapore dolciastro dei pomodori pachino e dei datterini. I Greci sostenevano che le radici di questa pianta curassero la rabbia canina e da questo ebbe origine il nome.

Qua e là arbusti di erica costeggiano il nostro percorso; queste flessibili fronde venivano usate per le scope e superstizione vuole che gli uomini che la raccoglievano generassero solo figlie femmine. Varietà di cisto (marino, che era un potente emostatico per le ferite, rosa e rosso) si alternano a plantago lanceolate, dalle proprietà antinfiammatorie e antibatteriche, corbezzoli, lecci, frassini, aceri e verbaschi (piante del Sinai, dette verga di Aronne).

Siamo giunti al Sentiero del Ciclo Carolingio ideato da Lupia, la cui esistenza è stata tramandata attraverso le testimonianze orali. Si tratta dell’ultimo sopravvissuto in Europa, recuperato dopo un attento e meticoloso lavoro di ricerca da Lupia per rendere omaggio alla “Chanson d’Aspremont” in cui sono descritti in modo dettagliato molti luoghi aspromontani, dove, secondo il poema, Orlando trascorse la sua infanzia, formandosi come cavaliere.

Leggiamo sull’esaustivo cartello che introduce al percorso:

“In Calabria le imprese dei reali di Francia con Orlando, Orlandino o Rolando che sale in Aspromonte […] hanno dato vita a un ricco ciclo carolingio poco conosciuto che annovera almeno sette poemi. La Chanson dei Paladini, che si racconta ancora oggi nella preSila catanzarese, è l’unica delle notizie in nostro possesso […] e si tramanda di generazione in generazione sin dal Medioevo”.

Inoltre, studi recenti hanno riscontrato interessanti corrispondenze tra le canzoni di gesta calabresi e l’”Orlando Furioso” di Ariosto. Continuiamo la nostra suggestiva passeggiata autunnale in cui prevalgono il giallo e l’ocra (a causa delle temperature calde che ancora si mantengono), poiché le tinte violacee e rossastre emergono a seguito di sbalzi drastici delle temperature che quest’anno non si sono verificate.

Interessandoci ai numerosi arbusti e cespugli, che per il dottor Lupia non hanno segreti, osserviamo la ginestra di Spagna (da cui si ricavano fibra, tinture e profumi) che veniva usata anche per eliminare i porri; la fillirea, in cui venne trasformata la ninfa che diede alla luce un centauro a seguito della relazione con Kronos; il mirto, da cui si ricavavano la cipria e il liquore, oltre che una sorta di distillato per la concia delle pelli (esportato, quest’ultimo, intorno al 1400, in Sicilia e Sardegna), l’alloro, il sisimbrio (detto l’erba dei cantanti, dopo che nel XVI secolo tornò la voce ai coristi di Guillaume Rondelet grazie a un decotto che conteneva questa pianta), il sambuco, detto inchiostro dei poveri, il tiglio (toccasana per la bronchite)…

Ogni angolo del bosco nasconde e protegge innumerevoli tesori e segreti per la bellezza, le cure, la cucina, ma il tempo scorre veloce e ci aspetta un’altra tappa importante.

L’anno scorso è stato inaugurato il Conservatorio Etnobotanico Mediterraneo di Sersale, che, insieme a quello di Castelluccio in Basilicata, sono i primi in Italia e in Europa, entrambi diretti dal dottor Lupia. Non si tratta di un museo, come si potrebbe inizialmente pensare, bensì di un laboratorio, un centro di ricerca e documentazione con annesso un erbario, che permetterà di far conoscere la flora calabrese e promuovere lo studio della botanica e dell’etnobotanica a servizio della protezione, catalogazione, ricerca, valorizzazione e studio delle piante in relazione con l’uomo. Entriamo sicuri di restare sorpresi anche stavolta. Nella prima sala, la Xiloteca, il dottore Lupia ci illustra le varie sezioni di tronchi catalogati sulle mensole corredando il tutto con curiosità e con richiami al passato: lentisco (utilizzato per produrre chewing gum, carbonella,cosmesi, olio di lentisco) ontano (per le tinte rosse e gialle), sambuco (utilizzato per manici di zappe e scope), agrifoglio, gelso nelle sue varietà bianco e nero (utilizzati per costruire carri e ricavare legna di vari tipi), pruno, ciliegio, diverse tipologie di pini (domestico, marittimo, loricato, laricio, bianco della Sila, abete del Gariglione), salice (da cui si ricava l’aspirina), acero, bagolaro, sughera, quercia, biancospino, pero, fico (di cui si utilizza la cenere, il lattice, per la preparazione dei formaggi, e il midollo, per la costruzione di flauti), oleandro (dalla corteccia sfruttata nel trattamento della malaria e dal legno che allontana le talpe). Proseguiamo nella Spermoteca dove barattoli in vetro conservano semi d’ogni tipo: carrube (che un tempo venivano usati come pesi da un grammo), fico d’India, damigella damascena dal fiore blu (questo affascinante nome contraddistingue una pianta i cui semi sono un potente narcotico e si trova in tutti i posti in cui si stanziarono gli Arabi). Un argomento a sé sono le gemme, che producono metaboliti primari (proteine, carboidrati, lipidi e acidi nucleici, adoperati per i gemmoderivati); veniamo, quindi, a conoscenza della gemmoterapia, una branca della fitoterapia che studia l’utilizzo dei tessuti vegetali embrionali (gemme o giovani germogli) per la cura delle malattie o per il mantenimento del benessere. Ce n’è davvero per tutti i gusti e necessità in questo incredibile affascinante mondo delle piante!

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