Nuovo Olimpo – recensione in anteprima
3 min di letturaUscirà il primo novembre su Netflix, dopo la presentazione alla diciottesima Festa del Cinema di Roma, l’ultimo film di Ferzan Ozpetek ‘Nuovo Olimpo’.
Storia d’amore ostacolata dal caso, il film racconta la relazione, all’inizio del tutto promettente e intensa, tra Enea (Damiano Gavino), studente di cinema omosessuale e Pietro (Andrea Di Luigi), aspirante medico che vive la sua sessualità in maniera più tacita: i due si piacciono da subito nel cinema romano chiamato ‘Nuovo Olimpo’, luogo di ritrovo per omosessuali della Capitale negli anni Settanta.
Sentita subito la scintilla, si incontrano per vedere classici come ‘Nella città l’inferno’ sotto gli occhi complici della simpatica cassiera Titti (Luisa Ranieri, truccata pesantemente per ricordare Mina, senza sottigliezza alcuna) e passano una notte rovente in una casa fornita per l’occasione, con una bella vista sui Fori Imperiali.
A causa di una protesta repressa dalla polizia, i due non si rincontreranno più: Pietro, rottosi un braccio in quell’occasione e dovendosi rimettere, si assenta per un po’ di tempo e non rivedrà più Enea, nonostante sia tornato al Cinema e abbia lasciato per il futuro regista una lettera con il suo numero.
Enea, che nel frattempo ha disertato l’Olimpo, si rimette in carreggiata con i suoi studi di cinema, fa discutere col suo film d’esordio (in cui mette in scena l’amplesso con Pietro) e diventa famoso; Pietro, invece, diventa un oftalmologo di prestigio e si trova una compagna, la quale sente di non sapere tutto di lui. Che il destino voglia farli rivedere ancora una volta?
La storia, lungo tutto il film, dà una sensazione di dejà-vu che non molla mai lo spettatore e riconferma la tendenza di Ozpetek ad andare sempre più verso il fotoromanzo: non aiutano né la fotografia patinata né i dialoghi o certi scorci da cartolina di Roma.
Nella seconda parte, attraverso l’incidente sul set e l’operazione agli occhi di Enea, svolta da Pietro stesso, si fa riferimento a Douglas Sirk e al suo ‘Magnifica Ossessione’ (1954), dando il sospetto che la professione di Pietro sia stata scelta solo per il momento della citazione letterale; inoltre, il racconto di un amore omosessuale impossibilitato a costruirsi e la divisione esistenziale dei due protagonisti (uno che accetta la propria tendenza facendone una forza e l’altro che l’occulta ritornando in seno al suo ambiente borghese) è stata troppo usata perché non ci si accorga di questo tema e della sua struttura costante.
Altrettanto evidente è la mancanza di slancio nel racconto della relazione principale: il reparto maschile sembra diretto con sufficienza e risaltano per contrasto la Ranieri, la Scarano e la Giovinazzo, sciolte e sicure nei loro ruoli anche quando i dialoghi e la regia non brillano.
Nondimeno, è l’assenza di stimoli visuali il vero peccato del film, perché viene ignorato proprio ciò che avrebbe potuto migliorare il racconto, dando uno sguardo diverso sulle cose, portando magari a revisioni profonde della sceneggiatura e della struttura narrativa.
Questo vale specialmente nelle scene erotiche, che sembrano conformarsi un po’ troppo alla sessualità patinata e meccanica, quasi ‘di plastica’ si vorrebbe dire, cui i prodotti seriali attuali stanno abituando il pubblico.
Antonio Canzoniere