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Trame 13. In scena “La grande menzogna” di Claudio Fava, omaggio a Paolo Borsellino

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Lamezia Terme, 22 giugno 2024, Chiostro S. Domenico. In scena, per la tredicesima edizione di Trame. Festival dei libri sulle mafie, con la direzione artistica di Giovanni Tizian, il monologo La grande menzogna, scritto da Claudio Fava e interpretato da David Coco.

Claudio Fava ha saputo realizzare una drammaturgia perfetta, un testo-verità rigorosamente costruito su fatti realmente accaduti eppure capace di suscitare tante e diverse emozioni che scaturiscono – con un parossismo quasi delirante – da un unico centro prospettico: la dimensione della morte come luogo privilegiato di indagine.

“Io adesso vi racconto un’altra storia. Un’altra storia”. Esordisce così, davanti a un pubblico in religioso silenzio, David Coco che, in una sorta di transfert sembra completamente “abitato” dal corpo e dalla voce di Paolo Borsellino. Il luogo scenico è popolato di manichini/fantasmi tratti dalle viscere della memoria e disposti come un corteo salmodiante di figure alle quali l’attore, in un continuo gioco di sdoppiamenti, dà vita ripetendo meccanicamente i gesti di un rituale, scandito, a volte, dalle strofe di Summer on a solitary beach di Franco Battiato.

Il 19 luglio 1992, il giudice Paolo Borsellino si reca in Via D’Amelio a Palermo per far visita a sua madre. Alle ore 16.58, una 126 imbottita con 70 chili di tritolo esplode, uccidendo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta tra cui Emanuela Loi, 24 anni, una “picciotta”, prima donna a far parte di una scorta e prima donna a cadere in servizio.

La descrizione di questa scena apocalittica ci viene restituita nei suoi macabri particolari dallo stesso Borsellino “Il botto. La polvere che toglie il sole dal cielo. Il puzzo di carne bruciata. E poi, il cratere… lì… al centro della strada, gonfio di terra nera, pezzi di vetro, un paio di occhiali, un tubo scassato, i cani di bancata che arrivano da tutte le parti e addentano i corpi… fino a quando arriva un vigile del fuoco, un padre di famiglia, arriva con il suo secchio di plastica e inizia a metterci dentro i pezzi della nostra carne…”

La storia viene così ricostruita in prima persona, con sguardo lucido e smagato perché, nel suo status di “morto”, Paolo Borsellino non può che dire la verità, nient’altro che la verità sollevando dubbi legittimi snocciolati come i grani di un rosario e anticipando in quell’immagine dei “cani di bancata” ovvero i cani che si aggirano nei mercati rifugiandosi sotto i banconi per nutrirsi di scarti, la pletora di individui misteriosi e mai identificati che si ritrovano sul luogo della strage. Chi era quel sedicente funzionario del Sisde arrivato in Via d’Amelio prima della polizia? Chi lo ha mandato e, soprattutto, che cosa cercava? E cosa cercavano quelli che vanno nel suo ufficio al Palazzo di Giustizia, notoriamente luogo protetto e inaccessibile? E ancora, cosa pensavano di trovare coloro che si precipitano nella villetta al mare dove il giudice amava trascorrere i suoi rari momenti di relax sdraiato sul letto a guardare il Tour de France? Perfino il portacenere hanno ripulito!

“Venghino signori! Venghino! Vi racconteremo storie di misteri e di veleni, di silenzi e di risate. Storie di tenebre in terra e di bugie nei cieli. Di giudici miopi, agenti pochissimo segreti, pentiti vestiti a nozze come pupi. Storie contorte come budelle e false come pernacchie. La grande menzogna!”

L’uso del richiamo un tempo utilizzato da imbonitori, venditori ambulanti e urlatori per attrarre e truffare un pubblico credulone o per invogliare gli spettatori ad assistere a spettacoli circensi poco credibili rafforza il valore caricaturale della grande menzogna ovvero il depistaggio sulla morte del giudice Borsellino e degli agenti della sua scorta che ruota intorno al falso pentito Vincenzo Scarantino. Scarantino è un piccolo malavitoso analfabeta della Guadagna, un “poveraccio” che viene “convinto” e “addestrato” affinché si assuma la responsabilità della strage. Eppure a questo “poveraccio” credono tutti: Giovanni Tinebra, procuratore di Caltanissetta, titolare unico delle indagini sulle stragi di Capaci e di Via d’Amelio; Arnaldo La Barbera detto “lo sceriffo”, capo della Squadra mobile di Palermo ed ex informatore del Sisde; Bruno Contrada, l’uomo forte dei Servizi segreti. Dopo una lunga serie di confronti, confessioni e ritrattazioni, Scarantino sarà definitivamente smentito, nel 2008, dal pentito Gaspare Spatuzza.

L’altro tema che siede perentorio accanto a quello della morte è il tema della memoria, una memoria che si parla addosso nutrendosi di quei frammenti di realtà i quali sembrano concedere, per un attimo, l’iridescenza di una vita fittizia: “Io di mafia non mi interessavo. No… a me in realtà piacevano altre cose. A me piaceva il diritto civile… le camurrie della norma mi piacevano… l’enfiteusi, l’uso capione, il pater familias… cioè quei concetti antichi, precisi, le cose buone del Diritto Romano… insomma la nostra tradizione giuridica. Io di mafia non mi occupavo, all’inizio… poi… è finita come è finita. No, io non sono dispiaciuto. No. Io rifarei tutto. Tutto.”

Fino a quel J’accuse toccante e provocatorio, attraversato da massicce dosi di ironia sapida e amara, che arriva come un pugno nello stomaco “Voi vi siete presi la mia morte e ve la siete messa in testa come una corona di spine, un calvario, un’infelicità, ecco… che però, in fondo in fondo, dentro i vostri pensieri vi rendeva felici, ebbri di grazie. Donne e uomini giusti che sanno riconoscere il male, dunque, decidono di scegliere il bene… bravi, bravi… cosa c’è di più semplice del ribrezzo per il male? Cosa c’è di più consolante che sentirsi un popolo eletto, infallibili nel giudizio, rigorosi nell’odio? Chi volete liberare, Cristo o Barabba? Eppure io non ero Cristo, manco Barabba, eppure io sono diventato il vostro atto di fede, un santino da incollarsi sul petto. Un’avemaria da recitare nei giorni storti, insomma, un amuleto. Intanto, però, non vi siete accorti di nulla, nulla, nulla…”

Un nulla ripetuto tre volte a sottolineare l’inerzia della società civile perché, in fondo, “A noi ci basta piangere il morto una volta l’anno” mentre, in realtà, per diciassette anni questo Paese ha vissuto nella menzogna abiurando parole come “verità” e “dubbio” ritenute troppo impegnative.

Le indagini sulla strage sono state lunghe e complesse, e ancora non sono state completamente chiuse. Nel corso degli anni, sono stati individuati e condannati all’ergastolo numerosi esponenti di Cosa Nostra ritenuti responsabili dell’attentato perché “In questo paese fa comodo pensare che dietro la mafia ci sia solo la mafia”. Tuttavia, ancora oggi ci sono molti aspetti della strage che rimangono oscuri, non è chiaro chi siano stati i mandanti ma è certo che vi siano state complicità esterne alla mafia.

Così, da quel palcoscenico che diventa il luogo dell’epifania del ricordo, l’ultima battuta suona come un monito e una preghiera “La verità. Dedicatemi la verità”.

Giovanna Villella

[foto di scena Mario Spada]

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