Al Marca Mobili Equilibri di Sebastiano Dammone Sessa
7 min di letturaDal 18 Febbraio al 18 Aprile 2017 il MARCA (Museo delle Arti di Catanzaro), nei propri spazi espositivi, ospita Mobili equilibri, mostra personale dell’artista Sebastiano Dammone Sessa.
La mostra, curata da Teodolinda Coltellaro, promossa dall’Amministrazione Provinciale di Catanzaro in sinergia collaborativa con la Fondazione Rocco Guglielmo, e rientra nel progetto comune, ormai consolidato, di valorizzazione degli artisti calabresi, delle loro espressioni creative più innovative e qualificate. Di seguito il testo critico completo della curatrice.
Lo sguardo si sofferma, in esplorazione analitica, sulle superfici delle singole opere; nelle sue variazioni di rotta, fluttuante nel suo muoversi curioso da un punto all’altro, si offre al libero gioco delle suggestioni immaginative, delle associazioni concettuali e simboliche, dando così inizio al viaggio interpretativo nell’universo creativo di Sebastiano Dammone Sessa.
Nel coinvolgente itinerario di lettura, l’occhio si incaglia talvolta tra le pieghe criptiche dell’opera, tra le sue incognite digressioni sintattiche: nascondimenti fecondi cui attingere elementi sostanziali inediti, attraverso i quali attribuire senso compiuto e valore alla sua ricerca artistica.
Nell’elaborazione strutturale e formale dei suoi lavori, Dammone Sessa utilizza, in modo quasi esclusivo, il legno e la carta. Il legno è supporto accogliente su cui la carta, in un addensarsi di strati, aderisce saldamente fino a formare un unico corpo, in una perfetta compenetrazione di materie che hanno la stessa matrice generativa. Entrambi sono per lui materiali familiari: fanno parte del suo vissuto esperienziale; rimandano a meccaniche combinatorie anche ludiche, a partiture fantastiche.
La carta, in particolare, lo affascina con le sue possibilità di stratificazione, di sovrapposizione, di metafora. E’ un materiale ricco di spunti operativi con cui ordire un discorso composto da singoli segni, da incisioni, da solchi, da impronte, da tracce: tutti frammenti elettivi in grado di intessere un muto quanto essenziale dialogo sistemico.
Il processo costruttivo obbedisce sempre ad una sottesa dinamica, ad un movimento che regola e giustifica ogni singolo atto creativo e che, da punto a punto, anima l’estensione compositiva, il corpo stesso dell’opera.
Così l’artista soppesa, valuta carte, ne indaga la loro preziosa diversità, ne sfiora la grana, la struttura materica, che di per sé è già elemento segnico distintivo, e su ciascuna di esse ordina, sovrappone, unisce, fonde e confonde in un’unica pelle, altre carte.
Carta su carta a formare strati, tenui spessori disseminati di nuovi segni, in un continuo di accumuli e sedimentazioni che preludono, nel magico rituale del gesto, al disseppellimento successivo, alla stupita scoperta che, come in una straordinaria drammaturgia teatrale, mette in scena l’evento, la scrittura dell’opera.
Così affiorano segni dispersi, significati nascosti, storie, simbolici passaggi sociali (ogni livello, ogni strato, è assimilabile ad uno stato sociale), inesplorati paesaggi dell’anima.
Di ogni segno Dammone Sessa declina non solo il destino formale, ma l’intrinseca capacità di racconto. Attraverso una fertile successione di passaggi evolutivi, ne sperimenta la disposizione, l’accostamento, l’articolazione; ne scopre le relazioni, le interazioni reciproche, la biologia memoriale e ne costruisce la sintassi e la trama narrante.
Il “fuori”, l’aspetto esteriore dell’opera, è il risultato di questo alchemico processo formativo, di cui gli strati succedutisi uno sull’altro, uno dietro l’altro hanno determinato, nella loro fragile presenza materica, la destinazione finale, così da permettere all’occhio e alla mente di avventurarsi, di smarrirsi tra colore e colore, tra segno e segno, inabissandosi fin nel suo nucleo più profondo, in cui scorgere ancora il cammino antico delle costellazioni e quel loro erratico chiarore che svela i concetti dietro le cose.
Sebastiano Dammone Sessa, a seconda dell’esigenza espressiva, attinge all’immenso serbatoio di geometrie e forme reali o fantastiche. Predilige quelle regolari, ma non elude le irregolarità, gli spigoli e gli sconfinamenti formali, ricercando le correlazioni possibili tra forma e forma, modulando i piani, inseguendo, con caparbietà e sapienza tecnica, quell’equilibrio imprescindibile tra le componenti strutturali dell’opera.
E, nella ricerca di un equilibrio che sposta all’infinito il proprio centro divenendo mobile punto d’approdo per elementi compositivi discreti e silenti, l’artista insegue, opera dopo opera, la conquista di un punto per abbracciare l’universo e, conquistatolo, lo rimette in gioco oltre il confine della singola opera, in continuo movimento verso altri spazi immaginativi, altri spazi del pensiero, rimescolando segni e concetti e ricostruendo la sua, temporanea e precaria, centralità, nella consapevolezza che nessun luogo è lontano e nessun confine è limite.
Nei suoi percorsi installativi dispone le forme regolari (per lo più quadrate) in sequenze modulari, a scandire sulla parete ritmi lineari, monodici o, viceversa, sovrapposte in colonne verticali, dal basso verso l’alto, da terra a sfiorare il cielo sospeso dello sguardo.
O ancora, sempre nelle installazioni a parete, associa singole opere, di dimensioni e forme diverse che, interagendo tra di esse, ridefiniscono un equilibrio formale più dilatato in cui ogni opera, in sé compiuta, isolabile e identificabile nella propria anatomia formale, contribuisce al funzionamento armonico dell’insieme, in questo simile ad una sinfonia in cui l’accordo tra suoni differenti permette di percepire l’identità di ognuno di essi e insieme la loro piena consonanza.
In ognuna di queste installazioni i singoli pezzi sono per l’artista altrettanti “appunti”, chiari, definiti nella propria struttura linguistica, leggibili sia nella propria singolarità che nell’insieme unitario del testo più ampio.
Tutto coincide in modo armonico: ad ogni singola configurazione formale, ne corrisponde un’altra differente e complementare; ed è proprio nella differenziazione che si costruisce quell’equilibrio che ne garantisce la pregnanza testuale, per cui ognuna di esse ha un proprio peso e valore specifico e riceve valore dall’altra, in una circolarità di associazioni e di sensi possibili.
L’artista, smontando l’installazione, si riappropria dei valori di disposizione sintattica dell’insieme e, padrone del gioco associativo delle parti, muovendo e spostando gli elementi costitutivi originari, compone una nuova opera, e così all’infinito.
E’ il cammino, non privo di asperità, della ricerca, della sperimentazione continua.
Un cammino che, nell’inquieto aggirarsi tra scorie e nuove eventualità, propone problemi, scardina certezze, insemina dubbi. Ma, nella fenomenologia della ricerca, basta spostare l’orizzonte dello sguardo, l’angolo di visione, e ciò che pareva irrisolvibile si anima di tensione immaginativa, proiettandosi nell’oggettività di un destino che, su piani spostati, scopre altre logiche e altre vie risolutive.
Così accade che, nella costruzione dei suoi moduli compositivi, l’artista rigeneri in nuove opportunità espressive ciò che all’origine si è presentato come un problema; accade che un cromatismo invasivo, un alone imprevisto, creato dall’ossidazione dei chiodi usati per fissare il supporto, diventi “provvido” incidente attraverso cui rimodulare forme e procedimenti operativi.
E’ ancora un rimescolamento di segni in un continuo oscillare tra levità e peso, tra materie rapprese e morbide trasparenze in cui luci e ombre, a fasi alterne, si scambiano le parti.
Nelle recenti opere di Dammone Sessa, le tavole, sapientemente ricoperte, intessute di carte, vengono trapuntate da chiodi distribuiti sulle superfici secondo riferimenti figurali rigorosi; chiodi che ne attraversano lo spessore materiale, la densità segnica, per riproporsi dal lato opposto, in quella che è la parte strutturale nascosta alla visione, come trama sostanziale del tracciato creativo.
Su di esse l’artista sovrappone emulsioni viniliche, a giocare con l’imprevedibilità delle reazioni ossidanti, e velature cromatiche a creare tenui dissolvenze e volatili visioni. Egli, nella ritualità di gesti creativi che traducono la poesia del suo fare, instaura un rapporto di intensa fisicità con l’opera.
Col ritmico respiro del cuore segna il tempo, col corpo, quasi danzando, accompagna l’evoluzione lieve, dilatata, delle materie, che si “riconoscono” senza confondere la propria identità figurale. La chimica delle dosi controlla e determina la variabilità e l’intensità cromatica delle tracce.
Essa crea impronte, macchie che si espandono sulla superficie del supporto, che occupano ciascuna un proprio spazio, che si sfiorano quasi a verificare la loro reciproca presenza, ma si fermano l’una sul bordo dell’altra in un prezioso equilibrio di forme e increspature di luce sull’orlo essenziale della propria esistenza.
Ogni opera è una straordinaria geografia di segni, è un’ estensione pervasa da sottili dinamismi compositivi, è un fertile deposito di significati.
I chiodi definiscono le coordinate spazio-temporali su cui incamminarsi e, in un rincorrersi di richiami evocativi, essi, di volta in volta, diventano forme mobili, geometrie rarefatte, aggregazioni simboliche: sono flussi di persone che si spostano, memorie di esodi, laceranti rimandi sociali, racconti di umane peregrinazioni; sono tracce indelebili, aloni di colore, resti visibili di cose sottratte alla deriva del tempo; sono singole entità al margine dei sogni, sono fragili riverberi, essenze luminose che si disperdono nelle distese notturne del pensiero.
E, in questo, le singole opere rispondono non solo ad un equilibrio esteriore, ma ad un equilibrio più profondo, instaurato dal di dentro.
Teodolinda Coltellaro