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LA RUOTA DELLE MERAVIGLIE di Woody Allen

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Film n.48 dell’epica alleniana, La Ruota Delle Meraviglie è la testimonianza prodigiosa di un regista fortemente vivo e vitale, la cui visione del cinema continua ad essere lucidissima e precisa- nonostante gli affossi di certo pubblico e critica talebani e distratti che non sanno vedere come, dopo più di quattro decadi, Allen continui a parlare della Storia e di noi in maniera impietosa e mai banale.

la ruota delle meraviglie

Dopo aver intrapreso la “fase della leggerezza” con il trittico Criminali da Strapazzo, La Maledizione Dello Scorpione di Giada e Hollywood Ending, necessari per uscire dalle bufere emotive e sentimentali che alla fine degli anni ’90 avevano travolto il suo cinema tramite il suo privato, Woody Allen aveva continuato il suo percorso di ricerca sul Senso (che, come insegna il suo cinema non c’è) per arrivare alla conclusione che l’uomo “per vivere ha bisogno delle illusioni come dell’aria che respira”.
L’illusione, e lo scontro con la realtà, è diventato allora il punto focale del suo cinema: che sia nelle morbide atmosfere retrò di Midnight in Paris, nella condanna morale di Irrational Man o nella dolorosa odissea di donna di Blue Jasmine, il problema resta sempre la difficoltà dell’uomo alleniano di adattarsi ad una realtà che non sente (più) sua. Lo stesso Justin Timberlake, in Wonder Wheele, lo ammette per bocca di Eugene O’Neill: ogni essere umano si racconta bugie per poter vivere.
E così il nuovo film di Allen si dimostra portentoso, forse uno dei migliori dei suoi ultimi: attraversato come corrente elettrica da quella dolorosa comprensione emotiva che porta i personaggi a scrutare dentro di loro mentre il mondo intorno li mette alla prova.

Grandi storie tragiche il cui protagonista è schiacciato dalle sue debolezze”: sono l’obiettivo narrativo di Mickey -sempre Timberlake-, ma a quanto pare anche del regista di Manhattan: la tragedia greca riletta per il postmoderno, mentre intanto Allen scava nei suoi nostalgici radio days mostrandocene il lato oscuro e peggiore, nascosto e drammatico.

Nella sua Ruota, Allen riflette il (suo) cinema e il (suo) passato, attraversandoli e rileggendoli, sorpassandoli e utilizzandoli per raccontare l’ultimo approdo del suo drop out eterno, a cui stavolta non è concesso neanche il gesto liberatorio del suicidio-omicidio: se spesso la morte ha fatto capolino nelle storie disperate dei protagonisti dei suoi film, questa volta non c’è neanche l’assoluzione personale di quell’ultimo gesto di libertà, perchè ognuno è dotato alla fine di uno specchio in cui guardarsi e nel quale, impietosamente, vedere il proprio fallimento e continuare a portarlo avanti, senza sconti, frantumando ogni illusione di salvezza.

E poi c’è lei, Virginia, che ha il volto tumefatto di Kate Winslet.

Altro grande ritratto di donna alleniano, altra superba prova d’attrice per una Winslet letteralmente attorniata dalle luci di un Vittorio Storaro al massimo: dal rosso al blu, dall’arancio al nero, sono gli stati d’animo e sono le giornate che attraversa il personaggio di Virginia, all’ombra della ruota delle meraviglie del titolo (che metaforicamente rappresenta l’ananke, il fato, di cui si vagheggia per tutto il film), che si riflettono sul viso adesso smarrito, adesso perso, della protagonista attorno alla quale ruotano i destini degli altri tre personaggi.

È sulla Winslet che la macchina da presa di Allen sembra svegliarsi: e le ruota intorno inventando movimenti inaspettati, la accarezza e la segue per tutto il film, ne svela debolezze e ne rivela segreti inconfessabili, per mostrarne il meglio ma anche il peggio.
La conferma che Allen sembra saper prendere il meglio dai suoi attori, impreziosendo ogni smorfia del volto, ogni espressione degli occhi, e non solo sulla sua musa ma anche sul (pur bravissimo) Timberlake, sulla profonda Juno Temple, sul rinato John Belushi.

Proprio su tutto il cinema poi, aleggia la forza di quell’immagine finale: che nega ogni possibilità di happy end, quasi a negarlo appunto a tutte le storie rincorrendo da vicino Antoine Doinel in riva al mare – e mostrandone invece il riflesso oscuro, quell’infanzia negata che produce una rabbia che brucia tutto intorno a sé. Figlio di un padre dissolto in un rullo di tamburi e di una madre irrimediabilmente persa nell’illusione di un passato perduto, di un presente negato e di un futuro dissolto.

GianLorenzo Franzì

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