La finzione letteraria come funzione politico-sociale
2 min di letturaNarrare storie è necessario alla sopravvivenza umana tanto quanto l’aver scheggiato la pietra per trarne fuori strumenti ed armi: è l’immaginazione a farci abitare il mondo, ed in questo, c’è poco da dire e, piuttosto, molto da dare!
Ciò che inventiamo, sia pure fittiziamente, si mescola al nostro vivere quotidiano come ipotesi per abitare il caos del mondo: un filo che consente di affrontare il labirinto della vita, dandogli un senso, come quello salvifico di Arianna, modello di esemplare determinazione al femminile, nel consueto nome di una donna.
La finzione, allora, sollecita gli ideali, facendo sì che i sogni si facciano inveramento, laddove la realtà, nel thriller del quotidiano, è solo allucinazione ipnagogica.
E a carte scoperte, o sudate, faccia il lettore, il meglio è in un buon cassetto di letteratura, mentre il peggio è riposto nel cassonetto della mala gestio politica. Ecco perché le lettere vanno maggiormente incoraggiate, perché sono l’abbiccì dell’anima di un Paese.
Scriviamocelo sempre con caratteri cubitali, per caratterizzarci ancor di più nel carattere, in una funzione che ha la migliore delle variabili!
Diversamente si corre il rischio di negare la propria identità attraverso la parola derealizzata e a grado zero di significato, di valenze e irraggiamento. Mettiamolo per iscritto, giacché la penna ha sempre avuto una buona lingua!
Si scrive per popolare il deserto… per non morire…
per essere ricordati e per ricordare… anche per dimenticare…
anche per esser felici… per far testamento… per giocare…
per scongiurare, per evocare… per battezzare le cose…
per surrogare la vita, per viverne un’altra…
per persuadere e amorosamente sedurre… per profetizzare…
per rendere verosimile la realtà…
Tante sono, suppergiù, le ragioni per scrivere.
Una di più, ma forse una di meno (non ho contato bene),
delle ragioni per tacere.
(Gesualdo Bufalino)
E lo sa (continua lo stesso scrittore) che, invece di pecore, conto personaggi?”. Eh sì: l’arte è consapevole che la vita non basta, spaziando nel racconto, un quid in più che non poche volte redime il qui ed ora, mentre dall’altra parte del selciato una moltitudine pecor(on)a, senza farne tesoro, è immobile a se stessa.
No al trionfo dell’indifferenziato…
Uomini siate, e non pecore matte
(Dante, Par. v, v.80)
Prof. Francesco Polopoli