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Aldo Borelli, il “megafono del Duce” al Corriere della Sera

6 min di lettura

(fonte www.corriere.it)

Giornalista e conservatore, con l’avvento del fascismo Borelli riuscirà ad ottenere la direzione del giornale più importante d’Italia, il Corriere della Sera.

Aldo Borelli nacque a Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia) il 2 febbraio 1890 da Luigi e Rachele Daffinà Russo. Frequentate le scuole dell’obbligo nella città natale, s’iscrisse a giurisprudenza a Roma (1906) dove nel frattempo darà spazio alla sua passione per il giornalismo muovendo i primi passi nel quotidiano L’Alfiere, per poi passare nel 1911 da redattore all’Agenzia Stefani, mentre dal 1912 al 1914 sarà al Mattino di Napoli come corrispondente nella Capitale, sposando a pieno la linea politica antigiolittiana e antisocialista del suo direttore Edoardo Scarfoglio. Nel 1914 fu anche nella redazione de la Nazione di Firenze dove ben presto ne divenne prima redattore- capo e poi direttore (1915).

Borelli direttore de la Nazione (1915 – 1929)

Fu questo il primo incarico importante per il giornalista calabrese. Infatti alla direzione del giornale fondato dal politico Bettino Ricasoli e di tendenza conservatrice, v’era prima del Borelli Silvio Ghesti (1910-1914), il quale aveva collocato il giornale su posizioni filo giolittiane tant’è che nel 1914 sosterrà la neutralità assoluta dell’Italia dinnanzi alla possibilità di partecipare alla Grande Guerra, attirandosi le ire dei gruppi interventisti i quali nell’inverno 1914/15 devastarono due volte la redazione del giornale, e costringendo Ghesti alla dimissioni (10 marzo 1915). Subentrato Borelli cambiò in poco tempo la linea politica al giornale, posizionandolo sulle posizioni politiche dei politici interventisti Antonio Salandra e Sidney Sonnino, aprendo una stretta collaborazione col giornale culturale La Voce, tant’è che l’editoriale del 23 maggio 1915 (due giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia) fu scritto dall’intellettuale Giovanni Papini. Questa scelta del Borelli fruttò un aumento vertiginoso delle vendite.

Borelli negli ultimi anni
(fonte www.corriere.it)

Durante il triennio bellico italiano, Borelli diverrà anche corrispondente di guerra per il suo giornale, stringendo accordi per la corrispondenza estera con altre testate nazionali e modernizzando l’apparato tecnologico della redazione. Anche queste scelte premiarono la direzione del Borelli, che fece diventare la Nazione in breve tempo il giornale più letto non solo a Firenze e in Toscana, ma anche il molte altre regioni del centro Italia. Con la fine della Grande Guerra (1918), la Nazione cominciò ad essere la voce della piccola e media borghesia nazionalista e reducista, fortemente conservatrice e prossima alla fascistizzazione, sostenendo polemiche infinite contro la democrazia e il “pericolo socialista” del biennio 1919 -1920, nonché criticando aspramente la Pace di Versailles (1919) e la condotta politica del socialista riformista Leonida Bissolati (1919) e del ministro degli Esteri Carlo Sforza (1920-1921).

 

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Intanto Borelli dal 1919 seguì e sostenne attivamente col suo giornale l’ascesa del movimento fascista di Benito Mussolini, sposandone in pieno la linea politica anti liberale, anti socialista e anti democratica, tant’è che alcuni mesi prima della marcia su Roma (28 ottobre 1922) Borelli stesso firmerà editoriali in cui criticherà apertamente il ceto politico liberale e le istituzioni rappresentative democratiche, auspicando una ascesa decisa di Mussolini e del suo movimento politico, ritenuto dal giornalista l’unico in grado di assicurare stabilità e continuità alla società borghese ormai minata da tempo dal socialismo bolscevico e dal liberalismo in crisi, parteggiando con quella frangia di fascisti ortodossi contrari a qualsiasi forma di governo di coalizione tra fascisti e i vecchi liberali Salandra e Francesco Saverio Nitti.

Dal 1924 al 1929 Borelli divenne pienamente fascista, facendo carriera nella sezione fascista fiorentina nelle vesti di Seniore della milizia e presidente del Sindacato toscano dei giornalisti (1929), spingendosi a celebrare la sua fede politica nel libro La diana degli spiriti (scritto contenuto ne i Quaderni fascisti. Collezione di propaganda nazionale per i giovani e per il popolo, edito a Firenze nel 1928). Intessé nel frattempo amicizie importanti a Firenze con le maggiori autorità fasciste cittadine e sopratutto nazionali nella persona dell’allora segretario del PNF Augusto Turati, il quale propose a Mussolini nel 1929 il nome di Borelli per sostituire il direttore dimissionario Maffio Maffii al Corriere della Sera.

Borelli direttore del Corriere della Sera (1929 – 1943)

Il quotidiano milanese prima dell’arrivo del Borelli versava in uno stato di crisi direzionale causato dal cambio repentino di più direttori in pochi anni dopo l’estromissione violenta dei fratelli Albertini (che non avevano appoggiato in alcun modo l’ascesa politica di Mussolini), non favorendo dunque un cambio di prospettiva politica accondiscende al nuovo corso fascista ma anzi perseverando nell’essere distante dal nuovo regime mussoliniano, il quale aveva bisogno del controllo del quotidiano meneghino come mezzo di propaganda sia fra i suoi tradizionali lettori del ceto borghese e sia, grazie al suo prestigio e autorevolezza, sopratutto nei confronti dei lettori italiani all’estero. Pertanto era considerato dai fascisti un’ultimo centro di dissidenza interna che doveva essere stroncato il prima possibile, ponendovi ai vertici un uomo di totale fiducia.

Visita delle autorità fasciste milanesi alla redazione del Corriere nel 1941. Borelli è il secondo in prima fila guardando da destra (fonte www.corriere.it)

Borelli rientrava in questo identikit, ecco perchè la sua permanenza durò fino alla caduta del regime nel 1943. Sotto la direzione del Borelli infatti il Corriere si allineò alla nuova politica mussoliniana, creando un clima di conformismo politico mai visto prima nella redazione. Borelli non perseguitò in alcun modo i collaboratori storici del quotidiano (tranne nel 1930 quando estromise un certo Eugenio Balzan, di rigida obbedienza giornalistica albertiniana), e si circondò di giovani e brillanti collaboratori, futuri protagonisti della cultura italiana del dopoguerra del calibro di Arturo Lanocita, Michele Mottola, Dino Buzzati, Guido Piovene, Luigi Barzini e Indro Montanelli. 

Svecchiò e aggiornò la redazione da un punto di vista tecnologico facendo installare moderne rotative, cambiò la grafica al giornale adottando l’impaginazione su nove colonne e introducendo sempre la fotografia, elaborò anche una diversa “architettura” della pagina usando titoli a più colonne e introdusse il titolo con sommario. Controcorrente rispetto la periodo storico, Borelli aumentò i servizi dall’estero dando soprattutto spazio ai coloriti reportages di viaggio, valorizzando la terza pagina che divenne ben presto una vera e propria istituzione culturale per gli scritti pubblicati.

Nonostante il suo mentore Turati cadde in disgrazia col regime (a causa della sua gestione del partito tendente al rigore morale che colpì gli interessi politici ed economici di importanti gerarchi nazionali che inscenarono una campagna scandalistica contro di lui per costringerlo alle dimissioni), tanto che fu inviato in esilio per un anno a Rodi da Mussolini, Borelli gli fu solidale continuando a permettergli di pubblicare suoi articoli e non temendo alcun modo punizioni da parte del duce che approvava totalmente la sua direzione.

Nel 1935 Borelli sposò la danzatrice russa Jia Ruskaja, e partì per l’Etiopia dove partecipò al conflitto con il grado di sottotenente di artiglieria e ritornando a Milano nel luglio 1936 col grado di tenente per merito di guerra.

Dal 1940 al 1943 Borelli scelse il silenzio ogni qualvolta i suoi corrispondenti dall’estero inviavano pezzi in cui documentavano gli orrori della guerra, come avvenne col corrispondente Alceo Valcini da Varsavia, il quale scrisse delle atrocità compiute dai nazisti contro le popolazioni civili polacche e contro gli ebrei.

Borelli in compagnia della principessa del Belgio Maria Josè di Savoia.
(fonte www.corriere.it)

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Gli ultimi anni, la morte e una curiosità

Dopo la caduta del regime fascista (24/25 luglio 1943), Borelli fu costretto a lasciare la direzione del Corriere e nascondersi per alcuni mesi a causa di timori per ritorsioni in un convento a Roma.

Dopo la Liberazione (25 aprile 1945) fu colpito da mandato di cattura per il suo esser stato un fervente fascista, ma venne in seguito amnistiato (1946). Sarà in questi anni riabilitato come giornalista divenendo direttore amministrativo del quotidiano romano Il Tempo (1948), per poi passare prima al settimanale Epoca e in seguito alla Mondadori; dal 1955 al 1958 fu direttore della Cines e assunse, infine, la presidenza del gruppo editoriale Giornale d’Italia – Tribuna.

Morì a Roma il 2 agosto 1965. Esiste una via a suo nome nella natia Vibo Valentia. Una curiosità; Borelli era parente di due illustri personaggi di Nicastro e Sambiase (oggi Lamezia Terme) in veste di nipote della medaglia d’oro per meriti militari Elvidio Borelli e zio del poeta vernacolare Salvatore Borelli.

Matteo Scalise

 

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