LameziaTerme.it

Il giornale della tua città



AMA Calabria. Alessandro Preziosi, “folle” Vincent

5 min di lettura

Lamezia Terme, 5 febbraio 2020. Altro grande appuntamento con la Stagione Teatrale organizzata da AMA Calabria al Teatro Comunale Grandinetti. In scena Alessandro Preziosi in Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco di Stefano Massini, regia di Alessandro Maggi.
Una co-produzione KHORA Teatro – TSA Teatro Stabile d’Abruzzo.

Un décor astratto e levigato firmato da Maria Crisolini Malatesta, tre pareti bianco calce, accecanti, fredde, refrattarie. Sulla parete di fondo – in impercettibile rilievo ton sur ton – il Campo di grano con volo di corvi a suggerire lo spazio e la libertà sognati. Quelle laterali usate come schermo su cui si stagliano, nitide, le ombre dei personaggi in un gioco di specchi. Su un piano inclinato, che occupa tutto il perimetro scenico, giace un corpo rannicchiato come un baco nel suo bozzolo. Un silenzio grondante di attesa è rotto da una voce fuori campo, infantile e nasale “È stato ammesso oggi in ospedale il signor Vincent Van Gogh, 36 anni. Egli è colpito da manie acute con allucinazioni della vista e dell’udito. Si reputa incapace di vivere e gestirsi in libertà. Necessita sottomettere il soggetto a prolungate osservazioni psichiatriche.”

Inizia in una immobilità gravida di senso la sofferta interpretazione di Alessandro Preziosi nel ruolo di Vincent Van Gogh rinchiuso nel manicomio di Saint Paul. Una interpretazione controllata in tutti i suoi particolari e minutissimi effetti sulla traccia di un testo simbolico, denso e inafferrabile insieme, a partire dal sottotitolo: L’odore assordante del bianco. Sinestesia ossimorica.

In questa falsa atmosfera da paradiso spettrale, in un tempo senza tempo, in una condizione di non-vita, Alessandro/Vincent respira e nutre il suo personale incubo aggrappandosi ai suoi incontri onirici, come quello con il fratello Theo nell’incipit dello spettacolo, per non precipitare nell’abisso dell’indifferenza e della solitudine “Giurami che esisti, giurami che sei reale, che gli altri ti vedono come ti vedo io, che ci sei, che respiri, che non sei vivo solo dentro la mia testa…”

Fame di colori in un bianco che è assenza di colore, di riferimenti percettivi “Fissare la pianta in cerca di colore, una macchia, una traccia, uno sputo di colore, una goccia di carminio, di magenta, un segno rosso, giallo, turchese…” e un delirio fatto di immagini evocate, desiderate, nascoste in una obliqua, sghemba stanza della memoria e condannate ad esistere: il treno, il carretto, le colline dorate, i vigneti, il campo di grano, le case arancioni fra gli alberi di prugne, le albicocche con i rami giapponesi…

Si sente la sua voce fredda, tagliente, gelidamente pazza, d’un tono – tuttavia – stranamente naturale, senza privarsi degli sfoghi e degli eccessi della follia, sempre morbosamente bella da vedere e da recitare così come la rabbia che prende forma su quella tela dipinta col carbone rubato di nascosto. Ritrarre il Dottor Vernon-Lazàre è come ucciderlo. Perché creare è uccidere ovvero tentare di purificarsi, di estirpare un male, un modo di salvare il proprio io da qualcosa o qualcuno che provoca dolore, vomitandolo come “carne marcia”.

Un demone tragico che si misura con le proprie paure, le attese terribili anche se sulla porta della sua stanza c’è scritto “totalmente placido”.

Una recitazione inquieta, forte e sicura, intensa e straniata insieme, fatta con tutto il corpo. Il curvo inscriversi della schiena, lo sguardo sbarrato, la lingua che vanamente umetta labbra riarse, le dita dei piedi disarticolate che si aprono come un ventaglio, le mani che si arrampicano su pareti d’aria per poi artigliare la camicia, strapazzandola, e trovare finalmente rifugio in un gesto-barriera o requie in un pietoso auto-abbraccio. Gesti reiterati ma misuratissimi, concepiti come proiezioni di un vuoto denso di sommovimenti. Sfasature e intermittenze di una coscienza (ma si può ancora parlare di coscienza?) a rivelare la ricerca di una verità più profonda, più antica, la verità delle pelle, della carne, delle viscere: l’identificazione dell’arte con il mondo e sé con l’arte.

Il dissolvimento del pensiero, del linguaggio, delle cose raggiunge una rarefazione sublime e concreta  sorretta da una scrittura, quella di Stefano Massini, nitida e feroce dove  la parola scritta si confronta con la parola teatrale senza il meccanismo del compiacimento ma restituendo il senso di una complessità che si risolve in armonia e pienezza linguistica.

Nel finale, con la circolarità che ricorda le sue stelle vorticanti, la voce adulta di Vincent ripete “È stato ammesso oggi in ospedale il signor Vincent Van Gogh, 36 anni. Egli è colpito da manie acute con allucinazioni della vista e dell’udito. Si reputa incapace di vivere e gestirsi in libertà. Necessita sottomettere il soggetto a prolungate osservazioni psichiatriche” mentre la serena luminosità del giallo inonda la scena sul tema musicale del Sacro Graal dal Parsifal di Wagner nella potente e morbida voce di Kirsten Flagstad.

Il dialogo immaginato e immaginario con il fratello e il contrappunto vocale con gli infermieri e i medici giocato sul doppio registro del dramma e dell’ironia virgolettano  gli altri interpreti della pièce che esprimono, d’ogni personaggio affidato alle loro cure, una attenta configurazione. Sollecito e premuroso il Theo di Massimo Nicolini, empatico e benefico ma innervato da una sottile vena di follia prudentemente amministrata il Dottor Peyron di Francesco Biscione; tirannico e viscido, affetto da “sindrome del piedistallo” il Dottor Vernon-Lazàre di Roberto Manzi; colorati di humour nero gli infermieri Roland e Gustave nelle interpretazioni di Antonio Bandiera e Leonardo Sbragia.

La regia rigorosa, a tratti severa, di Alessandro Maggi costruita su movimenti geometrici, l’uso evocativo delle luci di Valerio Tiberi e Andrea Burgaretta e l’alberatura musicale di Giacomo Vezzani restituiscono uno spettacolo di classica linearità e di inquietante spessore nel felice tentativo di creare una nuova, credibile idea contemporanea della tragicità.

Ovazione finale.

 

Giovanna Villella

[ph_Marco Masi /Courtesy AMA Calabria, Lamezia Terme]

Click to Hide Advanced Floating Content