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Ama Calabria. Falstaff a Windsor a Catanzaro, intervista ad Alessandro Benvenuti

9 min di lettura
alessandro benvenuti

In occasione dello spettacolo del 1 febbraio al teatro Grandinetti e del 3 febbraio al teatro Comunale di Catanzaro, Falstaff a Windsor, per la stagione AMA Calabria 2023/2024, abbiamo incontrato l’attore e protagonista, Alessandro Benvenuti, per farci raccontare meglio di uno spettacolo imprevedibile, pieno di sbalzi emotivi grazie al personaggio di Falsftaff e alla sua storia in un riadattamento egregiamente diretto del regista Ugo Chiti e raccontato, insieme agli attori di Arca Azzurra, proprio da Alessandro Benvenuti.

Alessandro Benvenuti è sempre stato un attore istrionico, cangiante, capace di adattarsi a contesti completamente differenti in tante occasioni. Guardandosi dall’esterno, e senza falsa modestia, può dire essere l’attore perfetto per questa opera teatrale?

Non è stato assolutamente facile entrare nel personaggio perché è un personaggio, umanamente parlando, molto lontano da me come persona. Quello che penso delle donne, sulla vita e su tante cose, però un attore è anche questo, si cala nei personaggi che non hanno niente a che fare con lui, è un percorso difficoltoso, se preso con passione e rispetto verso la professione, verso il pubblico che poi ti ascolterà. Però, ecco, è un viaggio in qualche modo affascinante proprio per questo, perché devi tirare fuori da te delle cose che dentro di te non ci sono, le devi far crescere lì per lì in qualche modo, no?! E quindi è anche un esercizio di vita. Come dire, io devo essere credibile in un ruolo che non mi sarei mai aspettato di fare, però a uno che fa l’attore questi miracoli vengono concessi in qualche modo, di entrare in altrui personalità e di essere un altro rispetto a quello che nella vita è. E quindi è così, però mi sta bene addosso perché in fondo, io non è che sia istrionico… diciamo che per il ruolo che ho e per quella fama che ho, poca o tanta che sia, la gente da me si aspetta comunque qualcosa di particolare e in questo senso è molto particolare il personaggio. Non è facile da fare ma insomma, da quelle che sono almeno le reazioni del pubblico, dal debutto fino a ora, devo dire che la sorpresa c’è nel vedermi in dei panni piuttosto inconsueti rispetto a quello che hanno visto fino a quel momento.

Invece, chi è Falstaff? Anzi, chi sono Falstaff, perché abbiamo almeno due anime che lottano dentro questo personaggio.

È un fanfarone, un millantatore, è una persona che sta sempre al limite del ridicolo, a volte ci si infila proprio dentro, è un ladro da anime, è un puttaniere, è tanta di quella roba che sì… c’è tanta gente che è così; i fanfaroni e i millantatori, quanti ce ne sono in politica a lavorare in questo momento… per l’amore del cielo (risate, nda). Il fatto di non aver onore, di non avere attenzioni a quelle che sono la morale. Ora, io non che che sia uno che pretende la morale però l’onore sì, mantenere la parola, siamo uomini o caporali? Quindi in qualche modo è un rappresentante di tanta classe politica, non solo politica ma soprattutto, in questo momento; uno come lui quindi è attuale. Ma i classici, da Pirandello a Shakespeare, tanto per citare un italiano e uno no, sono sempre attuali. Perché per quanto l’uomo si doti di computer o intelligenza artificiale o quello che le pare, i sentimenti sono quelli, l’anima è quella, i limiti di un corpo e di un cervello sono quelli, per cui alla fine la gelosia, la rabbia, l’odio, l’amore, l’affetto ci saranno sempre, e quindi in qualche modo raccontando dei campioni di umanità si racconta l’umanità, ecco tutto lì.

Falstaff torna a Windsor. Ma è sempre quella Windsor?

Ugo Chiti che cosa fa? Resuscita questo Falstaff e lo racconta in questo contesto in cui si scatenano pettegolezzi, amori, follie, tradimenti etc. etc. per dare il pepe al racconto. La parte più comica dello spettacolo è proprio perché è contestualizzato in quella farsa che che è “Le allegre comari di Windsor”. Ovviamente Ugo fa una un’operazione di sottrazione, lo colloca lì, da lì prende le cose più divertenti più comiche ma sintetizzandole. Poi però Ugo insieme alle allegre comari fonde anche gli altri due lavori nei quali è presente Falstaff, che sono poi due drammi: Enrico IV e Enrico V. Quindi non racconta solo le facezie, la vita sregolata e la parte più comica e divertente e più spettacolare, se Lei vuole, del personaggio, ma ne racconta anche i sentimenti più oscuri, il dolore, la perdita della fiducia in un amico, l’affetto. Viene fuori un personaggio difficile perché così pieno di sfaccettature, così completo. La gente ride ma alla fine si commuove anche, perché al di là del fanfaronismo del personaggio viene fuori anche il dolore di essere stato tradito da quello che ora è diventato il Re Enrico V, ma che finché era principe gozzoviglia con lui, andava a dormire con lui, si ubriacava con lui, andava a fare rapine più o meno per gioco con lui, era un mascalzone. E ora che è diventato Re, che Enrichetto il principe sia diventato il re Enrico V e che non voglia più a corte il cattivo maestro che è Falstaff, lo uccide perché improvvisamente si sente tradito da un figlio, tra virgolette, da uno dei suoi più allegri e più importanti amici. C’è questa sofferenza nel sentirsi abbandonato e tradito dalla Corona. È uno spettacolo completo. A livello di sciorinamento di sentimenti è uno spettacolo che racconta non solo la parte brillante ma anche quella più umana del personaggio, per cui è molto bello interpretarlo perché per un attore fare ridere e far piangere nella stessa commedia, non è una brutta cosa. È una bella impresa, non è una roba facile ma che se riesce ti dà tanta soddisfazione.

Passando alla parte produzione: rinnovata collaborazione tra Chiti Benvenuto e gli attori Arca Azzurra, quindi squadra che vince non si cambia?

Ci siamo fatti una promessa tanti anni fa, erano gli anni 90, ed era quella di fare una trilogia. Io sono prodotto da Arca Azzurra, da una decina d’anni è casa mia, lo era stata anche prima, e con Ugo avevamo pensato a un progetto di trilogia che facesse di me il primo attore della sua compagnia, che è appunto Arca Azzurra. Abbiamo cominciato nel 94, mi pare, con Nero Cardinale abbiamo continuato, cinque o sei anni fa con L’avaro di Molière e finiamo con questo personaggio, il Falstaff di Shakespeare. Quindi era un progetto già stabilito negli anni. Ugo è praticamente un fratello per me, un fratello di vita oltre che essere un maestro, è addirittura padrino della mia terza figlia, è una persona di famiglia, non è soltanto un amico, è molto di più. È stato il co-sceneggiatore di quasi tutti i miei film. Insieme a Ugo abbiamo scritto la trilogia dei Gori, lo spettacolo che mi ha fatto esplodere un po’ in tutti i teatri italiani. Al sud in verità l’ho fatto molto poco, ma è un testo che oggi mettono in scena tantissime compagnie toscane, per esempio, per dire che è diventato quasi un classico. E quindi la mia storia con Ugo è una storia di stima, affetto, amicizia, amore e lavoro, anche e soprattutto. Diciamo che è il mio più grande complice.

Rimanendo in tema sportivo ma ritornando a questo dualismo in Falstaff. Il nuovo eroe dello sport è oggi Sinner, che è a tutti gli effetti quello che si potrebbe definire un anti-eroe. Al giorno d’oggi abbiamo bisogno di anti-eroi?

L’antieroe se inteso come una persona cosciente, sì e oggi abbiamo bisogno di gente bella, sincera, con dei valori. Ma i valori non devono essere costrizioni, devono essere qualcosa che uno sente, non qualcosa di imposto. Deve essere un esempio, poi può essere scelto; e oggi mancano quegli esempi. Come ci sono esempi di criminali, perché un criminale ci deve essere, se c’è un Papa ci deve essere anche un criminale, sta nella storia del mondo. Io non voglio dare giudizi, voglio dire che dobbiamo essere esempi, come ci sono gli esempi del male, e che ci stanno perché il mondo è fatto anche di male, ci devono essere anche gli esempi del bene. Oggi quello che manca sono gli esempi del bene, perché del male ce ne sono tantissimi. Ed è giusto che ci siano perché sono previsti dal mondo, quindi non è che li puoi estirpare, li puoi combattere quello che ti pare, ma è così. Quello che manca sono gli altri esempi, anche perché il bene fa meno notizia del male, però poi in realtà fare del bene è più difficile perché è molto più facile mettersi in tasca soldi facili, visto che servono. È molto più facile usare il potere per avere dei vantaggi per te, è molto più facile l’egoismo dell’altruismo, ma è questa roba qua che ci sta facendo diventare ridicoli. Ci pochi modelli positivi, o comunque i modelli positivi così fanno meno successo, a meno che, come Lei giustamente ha detto, non sia un Sinner per il quale tutti si fa il tifo. A me piace da morire come gioca, mi piace la sua parabola, il fatto che con lo studio sia migliorato tanto; quello è un esempio. Però, quanti esempi sportivi ci sono che fanno veramente rabbrividire, come nell’ultimo caso con il portiere del Milan. Ma ti pare una roba bella?! Voglio dire, ma quello è bravo, gioca, ma perché tu devi essere così… la stupidità non ha colori, attraversa tutti i colori, quindi voglio dire non è che mi stupisca più di tanto. Il colore dell’uomo è quello dell’anima, dell’intelligenza, è lì che tu vedi il colore, non sulla pelle.

Tornando allo spettacolo e al mix tragicomico che riscontriamo, quanto c’è nello spettacolo del tipico umorismo tragicomico inglese e quanto invece dello stile più italiano?

Italiano poco perché è una scrittura universale, quindi non direi neanche inglese. Direi che c’è un umorismo riconoscibile, è difficile collocarlo. Quella di Shakespeare è una lingua universale, poi Ugo ha messo anche del suo. L’umorismo in questo caso molto spesso non è tanto di battuta quanto di situazione. Ci sono delle situazioni durante le beffe che sono veramente divertenti, sono da morir dal ridere. È più la situazione che non la battuta che ti fa ridere, che è ancora meglio perché uno gode senza aver bisogno di inventarsi chissà quale orpello o quale arguzia linguistica per far ridere. Si ride proprio della situazione. Quindi è una risata più lunga, è un’onda lunga più che una roba a scoppio da fuochi d’artificio.

Momenti più difficili e più belli dello spettacolo?

Lo spettacolo è diretto molto bene, Ugo ha ha fatto una regia veramente bella. Per quanto mi riguarda, il difficile è rimanere nel personaggio perché parte in un modo, con grande violenza drammaturgica, che non vuol dire cattiveria, grande piglio drammaturgico, e poi si stempera, diventa divertente, e alla fine diventa una creatura dolente, dolorosa. La difficoltà sta in questo percorso, nel cercare di essere coerente in un percorso senza donarsi troppo al pubblico. Nel senso, non è che uno per far ridere si svende, fa la boccaccia, o dice la roba, o fa la “carrettella” tipica dell’attore che vuole un applauso a tutti i costi. C’è un rigore in questo personaggio e la cosa più difficile ma anche più bella è rimanere in questo rigore senza concedere nulla in più al piacere del pubblico, perché il piacere è già nella scrittura, nel percorso del personaggio, quindi l’importante e il difficile è restituire questo rigore, dall’inizio alla fine. Che poi sia un rigore che ti fa divertire o commuovere è un altro discorso, ma la cosa più difficile è non cadere nella seduzione di voler per forza essere splendido con il pubblico. Devi essere splendido con te stesso, e se lo sei con te stesso il pubblico si accorgerà dello splendore e quindi dirà “bello!” “bravo!” o quello che vorrà.

In conclusione, cosa aspettarsi da questo spettacolo?

Tanto teatro. È uno spettacolo di teatro, vero, dove chi ama il teatro non può che non piacergli. Perché si appaga, perché è veramente scritto e diretto bene, e devo dire recitato dalla compagnia molto ma molto bene, almeno fino a oggi, poi non so se… (risate, nda). Battuta a parte, è uno spettacolo di teatro come non se ne vedono tantissimi, quindi io spero che sia apprezzato. La Calabria è una terra vicina a me, io ho addirittura scritto due spettacoli in calabrese arcaico, ovviamente aiutato da un calabrese, in qualche modo.

Grazie ancora e tanta emme, come si dice in questi casi.

Renato Failla

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