Stagione teatrale AMA Calabria. Il grande “Avaro” di Alessandro Benvenuti
4 min di letturaCatanzaro, 27 febbraio 2019. Un altro capolavoro di Molière, L’Avaro, con Alessandro Benvenuti per la regia di Ugo Chiti arricchisce la stagione teatrale organizzata da AMA Calabria al Teatro Comunale di Catanzaro.
Una commedia nera che si transustanzia in quel metafisico impianto scenografico costituto da un pannello boiserie dai toni scuri con dei varchi che creano vuoti e pieni, chiaroscuri, interni/esterni, e cubi lignei che, all’occasione, diventano seggiole, tavoli, cassapanche… Un’atmosfera di cupezza caravaggesca, con ampi volumi di buio, senza neanche la “grazia di un colore” se non fosse per il guizzo rosso di quella corda che percorre in tralice il palcoscenico delimitando uno spazio esterno, quasi sineddoche di un sipario, il bianco pentelico degli abiti di Elisa e Cleante, il carota brillante della parrucca di Frosina, il verde degli arbusti nel giardino e i colori fluo dei dolciumi disposti a piramide.
In questo spazio dominato dalle ombre abitano e si muovono i personaggi di Molière.
La tensione emana da Arpagone – portato in scena da uno strepitoso Alessandro Benvenuti – con le sue nevrosi e la sua sterilità morale e affettiva. Ma la grande alchimia è che il personaggio sembra uscire di soppiatto dal corpo dell’attore il quale lascia trapelare, sia nella forma che nel contenuto, tutto l’umore della sua propria personalità, l’articolazione segreta, l’intima sua essenza in un dire denso e rappreso in cui l’incresparsi sardonico dei toni vira verso lo humor nero. Alessandro/Arpagone vaga sul palcoscenico come un vecchio pellicano dallo sguardo grifagno, percorso da una sorta di algore stizzoso al momento culminate dell’equivoco tra la cassetta e sua figlia Elisa, (espediente comico che arriva da Plauto) per virare, poi, verso l’allucinazione nevrotica quando si accorge di essere stato derubato. Così, abbattendo ogni convenzione, si rivolge direttamente al pubblico “Vi denuncio tutti” e la perfidia sotterranea sfiora i limiti della farsa. Egli briga rimbrotta si infuria comanda glissa si tormenta… fino alla regressione infantile quando rientra in possesso dei suoi averi con una felicità da fanciullo che diventa amplesso, orgasmo come nella Danae klimtiana posseduta da Zeus tramutato in una pioggia d’oro.
“Ci bastiamo da soli” è la sua chiosa finale, e nella afasia dei sentimenti verso il resto del mondo mostra una tenerezza infantile illuminata da qualche scintilla di umanità che lo redime trasformando la sua miseria morale in misericordia universale.
La messinscena oppone in modo tranchant due mondi, quello di Arpagone, prigioniero della sua tragica solitudine e della sua attrazione compulsiva nei confronti del denaro, e quello della sua famiglia e del suo entourage che non rimane in ombra ma urla la sua fame di vita e d’amore.
Lucia Socci vena di giusta ribellione la sua Elisa e Andrea Costagli propone un Cleante caparbio ma in una misura piana, fatta di raffinatezza e di stile. Millantatrice o ruffiana, la Frosina di Giuliana Colzi lascia intravvedere un côté maternel e dei momenti di intimità che legano le sue azioni a qualcosa di più privato. Misurato e incisivo nella sua scaltra, domestica saggezza il Valerio di Gabriele Giaffreda, elegante e di gran dignità la Mariana di Elisa Proietti, deciso e pragmatico il Don Anselmo di Paolo Ciotti laddove l’impertinente Freccia dell’ottimo Massimo Salvianti (con sue incursioni nella commedia dell’Arte in mezza maschera nera) e l’irruento, efficacissimo Mastro Giacomo di Dimitri Frosali mostrano l’astuzia e il dinamismo propri dell’universo dei servi che con le loro furberie si fanno gioco del padrone per far sì che l’amore trionfi.
La cifra registica di una maestro come Ugo Chiti – che ha curato anche l’adattamento e la mise en espace dello spettacolo – riesce ad assorbire nella sua tensione intellettuale tutti i personaggi e a costruire una loro necessità poetica-emotiva carica di inquietudine che rifiuta il vuoto e l’inutilità dell’orpello. La parola teatrale scorre viva e sicura sui tempi del contrappunto tra argute conversazioni e diverbi, concitate orditure degli inganni, rivalse, schermaglie amorose. Il risultato è uno spettacolo giocato sui ritmi e sui contrasti ma calibrato e incisivo, fedele al testo eppure moderno e antiaccademico, specchio delle anamorfosi del nostro tempo, elegante e ironico con punte di alta, amara comicità impreziosito dai pittorici costumi di Giuliana Colzi, dai suggestivi inserti sonori di Vanni Cassori su arie del ‘700, dalle luci di grande effetto espressivo ben disegnate da Marco Messeri, ora intime e discrete ora taglienti e fredde come lame che si spengono sul luccichio di quelle monete tintinnanti.
È il buio desolato che precede ogni alba.
È il buio che si riempie di lunghissimi, meritatissimi applausi.
Giovanna Villella
[foto di scena_Filippo Venturi]