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AMA Calabria. Peppe Barra e Patrizio Trampetti o della nostalgia del teatro antico

4 min di lettura

Lamezia Terme, 5 dicembre 2019. Ancora un grande appuntamento con la Stagione Teatrale organizzata da AMA Calabria al Teatro Comunale Grandinetti. In scena Peppe Barra e Patrizio Trampetti con  I cavalli di Monsignor Perrelli  di  Peppe Barra e Lamberto Lambertini che firma anche la regia.

La scenografia rosso porpora, firmata da Carlo De Marino, ricorda certa pittura barocca napoletana. I fondali dipinti ricreano il salotto/biblioteca del monsignore, sulle pareti ritratti di santi e di antenati e dalla finestra sul fondo, in trompe-l’oeil, il Vesuvio che fuma. Siamo a Napoli verso la fine del Settecento e gli inizi dell‘Ottocento  e questa divertente farsa in musica, tra storia e folklore, appartiene ad un teatro antico, dal sapore nostalgico, come sospeso nel tempo. Nel perimetro scenico si consuma il rapporto quotidiano tra Monsignor Perrelli, ecclesiastico e sedicente scienziato, realmente vissuto all’epoca di Ferdinando IV di Borbone, e la sua perpetua Meneca, popolana, scaltra e linguacciuta.

Patrizio Trampetti disegna un Monsignor Perrelli in punta di matita con sfumature mimiche stilizzate, rigide, marionettistiche quasi. Candido fino all’angelismo riesce comunque a  far emergere anche l’altro volto tartufesco di malcelata supponenza, infarcendo la sua lingua di citazioni in “latinorum”. Vestito in redingote, ammanta la sua sublime vacuità accademica di  dignità statuaria con pose che rammentano certi busti marmorei. Evanescente, lunare e smemorato, conserva lo stupore del bambino e la follia dello scienziato/filosofo che disserta sul nulla dando sfogo alla fantasia più sfrenata perché il suo pensiero abita lo spazio concluso della sua casa. Le sofferenza, la fame, la violenza sono allocate altrove e le sue reazioni improvvise non ammettono repliche quando Meneca, con rozza schiettezza, osa mettere in dubbio le sue convinzioni.

Peppe Barra si presenta in proscenio in abito da camerino con uno specchio da trucco e, da superbo cantore dell’anima napoletana, propone il suo Core a  core, malinconica ballata sul mestiere dell’attore che funge da prologo in musica alla pièce e rinnova l’eterno patto di “finzione” con il pubblico. Poi entra in scena en travesti nello straordinario personaggio di Meneca.  Imboccolato come una bambola d’altri tempi, la parrucca corvina esalta la mobilità del suo volto/maschera. Gli occhi disillusi, ma anche maternamente inteneriti, ammiccano al pubblico coinvolgendolo in esilaranti siparietti sull’arte culinaria in cui il doppio senso, condotto con mestiere e maestria, è sempre allusivo e mai liberato, spia di una castigatezza non sostanziale ma formale. Il timbro vocalico spazia dal falsetto al gutturale e la sua risata è piena, sonora, contagiosa. Infagottato in un castigato abito nero, impreziosito da uno scialletto bianco ricamato come unica nota di civetteria, con il suo vociare e il suo vorticante gesticolare, domina la scena come un’ape regina, dispensando miele e veleno. Il suo modo di esprimersi, tra dialettale e analfabetico, è la risposta popolare alla saccenteria dell’uomo di chiesa e al linguaggio aulico dei pedanti.

Ma la distanza sociale tra il monsignore e la sua perpetua si annulla in quella dimensione affettiva che esalta la maternità putativa di Meneca e che si sostanzia, nel sottofinale, con quella struggente ninna nanna funebre. Meneca lo cura, lo coccola, lo sgrida, lo nutre cercando di placare la sua voracità fanciullesca. Le sue ricette non sono solo il trionfo della cucina napoletana ma sono soprattutto “ricette d’amore”, atte a colmare quel vulnus affettivo scandito da intermezzi  onirici durante i quali i genitori di Monsignor Perrelli si materiano sulla scena come fantasmi in un sogno. “Care presenze” interpretate da due bravissimi cantanti/attori, Luigi Bignone ed Enrico Vicinanza che, con impeccabile lirismo obbediente a moduli fissati in un consumato esercizio scenico, innestano nella pièce siparietti canori interpretando alcuni dei testi più belli del repertorio melodico partenopeo Funtana all’ombra, Mmiez’o grano, La luna nova con quella luna di carta che appare, luminosa, all’improvviso, L’amore è un pizzicore, Presentimento.

Le musiche di Giorgio Mellone e di Patrizio Trampetti modulate su arie settecentesche e i costumi pittorici di Annalisa Giacci arricchiscono questa farsa in musica abilmente strutturata dove il gioco scenico diventa l’antagonista della comicità sublimandosi nel gesto finale di Barra/Meneca che, seduto sulla poltrona di Monsignore, si toglie la parrucca del personaggio e riprende la maschera dolente del prologo iniziale. Lo spettacolo è finito.

Buio. Applausi fragorosi.

 

Giovanna Villella

[ph_ Pino Attanasio/Fonte web]

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