Angela Finocchiaro in “Ho perso il filo” ovvero il rovesciamento del Mito
4 min di letturaCatanzaro, 22 marzo 2019. In scena al Teatro Comunale lo spettacolo Ho perso il filo con Angela Finocchiaro su testo di Walter Fontana e regia di Cristina Pezzoli. L’evento, inserito nel cartellone della rassegna teatrale Vacantiandu con la direzione artistica di Diego Ruiz, Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta, è stato organizzato in collaborazione con il Festival Fatti di Musica di Ruggero Pegna.
Arriva dalla platea, Angela Finocchiaro, a stabilire una immediata empatia con il pubblico. Sale quella scala improvvisata fatta con i bauli che contengono l’attrezzeria scenica e si mette al centro del palco dove campeggia un bianco gomitolo gigante. Dichiara le sue intenzioni interpretative. Questa sera si cimenterà in qualcosa di diverso. Vestirà i panni di un eroe: Teseo ma non prima di aver raccontato, con irriverente candore, l’antico mito del Minotauro. Con qualche suggestione alla Paolo Poli ma con una dose minore di perfidia e più sorridente ironia.
Così dopo aver consegnato il gomitolo ad una spettatrice in prima fila si addentra nel labirinto in una atmosfera onirica tra sipari leggeri e un sapiente impasto cromatico di luci e suoni, merito dei talenti associati di Giacomo Andrico (scene), Valerio Alfieri (luci) e Mauro Pagani (musiche originali).
In realtà la scena è un luogo dell’inconscio, un paesaggio interiore da cui provengono i fantasmi che evocano emozioni, ricordi, coscienza e immaginario. E qui i fantasmi hanno il corpo di sei fantastici ballerini: Giacomo Buffoni, Fabio Labianca, Alessandro La Rosa, Antonio Lollo, Filippo Pieroni, Alessio Spirito che, su coreografie di Hervié Batie, mostrano un vigore e una forza personalissimi. Dotati di una struttura fisica marcatamente nervosa ed esercitata fino nell’ultimo muscolo, riescono a rasentare l’acrobatico senza mai allontanarsi dai giusti confini della danza in un alternarsi di fluidità e stasi, sequenza di figure e passi d’élévation e, in sottofinale, magnifico gruppo scultoreo in posa plastica.
Come un coro greco, in una striscia danzante continua, queste “creature del labirinto” accompagnano o enfatizzano le situazioni sceniche. Mentre gli interrogativi, i giudizi, gli ordini che si imprimono sul “muro parlante”, sorta di quadrante cinematico, non sono altro che proiezioni speculari dell’io e del subconscio.
Tutto è giocato sul filo magmatico dei ricordi, visti in retrospettiva, con l’occhio adulto ma ancora infantilmente disincantato della protagonista: l’educazione in un collegio di Orsoline (con passerella clericale), il primo bacio, i consigli che si tramandano da madre in figlia, il matrimonio, la maternità, la rassicurante quotidianità…
E in quel perimetro di sogno, la realtà, irrompe – paradossalmente – attraverso l’onnipotenza della tecnologia creando ironiche e giocose discrasie. Il mito diventa pretesto per raccontare la tragedia dell’individuo moderno circoscritta ormai all’esperienza personale e non più collettiva e che si traduce, in dubbi, incertezze, paure, insicurezze, nevrosi, tormenti. Ma anche in una riflessione sulla morte in tutti i suoi aspetti: morte rituale, morte violenta, annullamento. E lei, sempre più disorientata e sola, si impadronisce del gravoso compito di capire “le cose”.
È l’eroismo della vita quotidiana dove le sue autoconfessioni si misurano con un buon senso che si rivela nelle sue continue smagliature ma che, tuttavia, viene reinventato – con ottimismo – nella dinamica scenica attraverso un faticoso processo di rigenerazione e di autoaffermazione. Il filtro dell’umorismo esalta il sapore della libertà conquistata senza spargimento di sangue.
La storia intera appare soprattutto mentale eppure deliberatamente teatrale, grazie alla regia abile e scoppiettante di Cristina Pezzoli e al testo di Walter Fontana nella cui tessitura narrativa ritualistica e iniziatica ma nello stesso tempo quotidiana e riconoscibile si aprono, d’improvviso, profondità metafisiche.
Angela è sempre in scena, vitalissima. Con l’energia di un folletto salta scappa combatte gattona e danza esibendo frenesie motorie rigide, stilizzate, quasi marionettistiche ma soprattutto parla…. Parla con garbo, intelligenza e autoironia, qualità indiscusse della recitazione. Sembra che la Finocchiaro si diverta molto, e così facendo diverte gli altri. Moltissimo. Vivace e turbinoso finale sulle note del sirtaki che si trasforma in gioiosa danza catartica.
Applausi scroscianti e lunghissimi. Per tutti.
Al termine dello spettacolo, il consueto omaggio della tradizionale maschera, simbolo della rassegna Vacantiandu ideata dal graphic designer Alessandro Cavaliere e realizzata dal maestro Raffaele Fresca, che il direttore artistico Nico Morelli e il direttore amministrativo Walter Vasta hanno consegnato ad Angela Finocchiaro.
Giovanna Villella
[foto di scena Ennio Stranieri]