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#letturedestate Born to run, un’autobiografia da Boss

4 min di lettura

“C’è una promessa che l’autore di un libro come questo fa al lettore: aprirgli la propria mente”, Bruce Springsteen in Born to run, l’autobiografia del Boss

#letturedestate Born to run arriva al momento giusto, quando non è ancora troppo caldo per piazzarsi sotto l’ombrellone e c’è ancora del tempo per pigiare il tasto play lasciandosi inebriare dal fuoco di una musica nata, appunto, per correre.

Di un’autobiografia c’era bisogno, di un racconto in prima persona che mettesse nero su bianco la fatica del successo, la responsabilità di incarnare la narrazione delle storie comuni, quelle della gente semplice, degli immigrati, dei lavoratori, dei ragazzi in brillantina così lontani dal rock scintillante dei Rolling Stones.

Questa prima persona che permea Born to run in maniera nuda e cruda, con uno stile espressivo che, celandosi sotto quello colloquiale delle serate tra amici, si rivela in realtà ricercato, scevro di orpelli e diretto, in linea con la tradizione americana del racconto, insomma questa prima persona, dicevamo, è quella di Bruce Springsteen, l’eroe della working class. Il Boss racconta con introspezione e critica la strada percorsa fino ad approdare alla consacrazione tra le stelle del rock, sviscerando incontro dopo incontro, anno dopo anno, un percorso la cui meta raggiunta non può dirsi definitiva, ma sempre spostata in avanti.

Eccolo, quindi, il grande romanzo americano che assume su di sé il sogno, le speranze, le aspettative e gli approdi di quel figlio di immigrati italo-irlandesi destinato a correre fino a scuotere corpi e coscienze.

Nato tra scontri culturali ed economici, Bruce Springsteen è fin dalla più tenera età intenzionato a imprimere un cambiamento. Born to run non è pertanto la storia di una gloria passata che insegue la ribalta lavorando su nostalgie collettive, ma è il romanzo di vita di un eroe vivente che ha costruito il suo successo su prove ed errori, su amicizie indissolubili (E street band) e impegno concreto (diritti civili, Amnesty international). L’autobiografia è la storia di un bambino nato per correre e di un uomo che ha fatto di quella corsa un manifesto d’intenti, tutti rispettati, tutti portati orgogliosamente a compimento.

Questo lungo e avvincente scritto è anche un romanzo di formazione dei tempi moderni, mostra infatti come la vita di un uomo sia in costante bilico tra fragilità e sconfitte. Se fare musica seguendo i propri principi è difficile nell’east coast degli anni Sessanta e Settanta, lo sarà ancora di più quando le note diventano specchio del reale, non più mero intrattenimento da bar. Born to run racconta anche questa dimensione della musica. Nato per correre, quindi, come l’americano medio, che frequenta scuole statali, cresce per strada in quartieri multietnici e densi di conflitti, finisce a lavorare in fabbrica o in miniera, conosce l’amore che è gioia e disperazione, e si getta lungo la propria strada inseguendo una rivincita che nella maggior parte dei casi non avrà… Ma potrà almeno permettersi di sognarla attraverso la musica di Bruce Springsteen.

L’autoreferenzialità, tentazione facile per una star, in questa autobiografia è messa la bando. Il protagonista è solo un uomo in corsa che deve lottare per emergere, per rimanere lontano dalle debolezze paterne, per sconfiggere la depressione e per non perdere di vista la realtà. Quella stessa realtà che è chiamato a cantare.

Menestrello dei conflitti sociali, ma anche di un’America che è grande davvero, che vuole essere libera e molteplice, Bruce Springsteen si spoglia dell’aurea divina trasformando la sua vita in racconto e adottando quella stessa asprezza e chiarezza dei toni che è tipica non solo delle sue canzoni, ma anche dei racconti di Flannery O’Connor e dei brani di Bob Dylan.

Chiunque tu sia e ovunque tu abbia vissuto, non puoi liberartene: il passato sale in macchina con te e ci rimane. La meta e il successo del viaggio dipendono da chi guida. Quanti musicisti, perdendo il contatto con le proprie radici, avevano smarrito la bussola e visto la loro arte diventare anemica e ondivaga? La mia sarebbe stata musica identitaria, la ricerca di un senso e di un futuro“.

 

Daniela Lucia

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