Captivus o della vita sottratta
7 min di letturaLamezia Terme, 28 aprile 2017. In scena al TIP Teatro, per la XIV edizione della rassegna Ri crii 2017 diretta da Dario Natale, lo spettacolo prodotto dall’Associazione artistica Manachuma Come un granello di sabbia. Giuseppe Gulotta, storia di un innocente, selezione Premio IN-BOX 2016, con Salvatore Arena che insieme a Massimiliano Barilla ha curato anche il testo e la regia. Rigoroso e giocato su un calibrato gioco di luce/ombra il disegno luci di Stefano Barbagallo. Evocative le musiche originali di Luigi Polimeni.
Uno spettacolo tratto da una storia vera che è anche un libro Alkamar. La mia vita in carcere da innocente (Chiarelettere edizioni) scritto da Giuseppe Gulotta e dal giornalista Nicola Biondo. Un caso di mala giustizia all’italiana che per 36 anni – di cui 22 in carcere – e 10 processi, ha portato alla morte sociale un innocente accusato ingiustamente dell’omicidio dei due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, nella caserma di Alkamar, in provincia di Trapani, il 27 gennaio 1976.
Paul Valéry scriveva “Invidio il prigioniero di una cella che lo protegge e in cui egli è padrone del tempo, della solitudine e della continuità”. Nella trasfigurazione letteraria, dunque, anche la reclusione può diventare oggetto di invidia. Ma nella concreta realtà dell’esperienza non si può trarre alcun sollievo dalla poesia.
Salvatore/Giuseppe avviluppa nel suo acquario circolare uomini, parole, cose, volti, gesti tutti offerti senza reticenza né segreto. Offre la sua malinconia, il suo sole perduto, la sua persecuzione, la sua reclusione.
La scena, firmata da Aldo Zucco, è semibuia, solo una luce radente. Uno spazio asfittico ad evocare una cella o una stanza di tortura e pochi oggetti-simbolo. Lui entra e sposta uno sgabello. Respira a fatica. “Come si conta l’aria? L’aria che perdi, che lasci andare, che non afferri? Quella mangiata masticata e poi sputata? Come si conta l’aria? Quella del primo vagito, quella presa con il primo bacio? L’aria della campagna, del mare, dei 18 anni? Dove è finita l’aria?”
Ha fame d’aria lui e non potendola respirare la riproduce nella memoria offrendoci il primo flashback del suo racconto: la vespa arancione, il viaggio verso il mare, il bagno con gli schizzi, i giochi con gli amici, la torta dei 18 anni “La prima torta della mia vita”, il desiderio da esprimere spegnendo le candeline, i brindisi, le foto. E qui si produce la prima biforcazione del tempo. Tempo della reclusione e “altro” tempo vivono simultaneamente. Doppiezza del tempo e doppiezza della memoria. Là dove la vita sociale non scorre più restano attive tensioni di sopravvivenza che non hanno ceduto alla rassegnazione. E così “ristrutturare” ovvero autorappresentare l’esperienza emozionale al fine di neutralizzarne il potenziale altrimenti distruttivo diventa una strategia “necessaria” per evadere dall’orrore paralizzante del presente e ritrovare energie necessarie alla sopravvivenza. Anche perché il carcere è un labirinto con regole non scritte: “il carcere è così, per come ti comporti il carcere risponde”.
Mentre il discorso diventa ermeticamente chiuso dalle sue ripetizioni “Io non bevevo vino, quando poi devi solo alzarti la mattina, rifare il letto, bere il caffè, prendere l’ora d’aria e poi tutto uguale… Io non bevevo vino, quando poi devi solo alzarti la mattina, rifare il letto, bere il caffè, prendere l’ora d’aria e poi tutto uguale…” Eterno ritorno delle serie periodiche che frazionano e scandiscono la giornata coatta. Iterazione verbale con funzione tranquillizzante e medicale.
E ancora l’orologio del tempo che gira al rovescio, dal presente al passato. Tempo a ritroso abitato da voci secondarie che si muovono su variazioni timbriche ora intime, ora insinuanti in un tracciato di percorsi tutti interiori o aperte, fredde e taglienti come lame di coltello laddove la modalità straniante è riservata a un vibrante monologo sulla libertà “La libertà è fotosensibile, va tenuta al buio…”. Voci evocate come fantasmi sulle note di “Anima mia” de I Cugini di campagna a delineare la cornice storica.
Il giudice Giacomo Bodero Maccabeo “Gulotta lei ha la facoltà di non rispondere… Ma non mi chiede niente signor giudice?… No, l’ascolto… Sono Gulotta Giuseppe di anni 51 e da trent’anni vivo dentro a un incubo…”.
L’ufficiale dell’arma che lo sottopone a torture per estorcergli la confessione “Portatemi Gulotta. Parla figlio di puttana. Tu li hai ammazzati. Parla. Parla… Gridano urlano colpiscono. Io non capisco più niente… Dottore è vivo… Basta! Uscite fuori tutti! Parla Giuseppe, parla… Io non so niente… I tuoi complici… Quali complici? … Parla. Parla. Dillo… (mentre il bastone colpisce senza pietà)… Io l’ammazzai. Sì. Io l’ammazzai ve lo giuro. A tutti e tre… No, due erano… Apuzzo e Falcetta… Sì, sì prima a Falcetta e poi ad Apuzzo… Sì, sì. Basta che non mi toccate più neanche con un pelo di barba… Allora firma… Sì, sì firmo. Giuseppe Gulotta… Ma che firmasti?… Era il verbale della confessione già steso.
Il vicequestore Giuseppe Peri che ai tempi dirigeva la caserma di Alcamo e che aveva intuito il lungo filo nero che legava la mafia e i servizi segreti deviati sotto un’unica regia che portava lontano a Roma, fino alla politica.
Vesco, il grande accusatore monco trovato impiccato in circostanze misteriose.
“La verità è come un diamante duro e incorruttibile ma è stata tradita da chi doveva difenderla…Tutto persi, tutto per quella firma. Ma il giorno dopo avevo ritrattato. Avevo detto quello per non essere più toccato… 3 mesi di isolamento. Mi specchio in un muro di cemento. Vedo mia madre dopo tre mesi… Quando non dormo piango… Per tutti il rapporto scritto dei carabinieri è come il Vangelo. L’unica speranza è il processo. L’unica speranza è che Vesco parli… Gli altri fuori che pensano di me? Che sono un mostro, un assassino. Io ho solo 18 anni… Dammi un goccio di vino…”
È come se nel suo corpo si fosse fissata la memoria dell’isolamento laddove le rarefatte parole sembrano isole affioranti qua e là in un mare di silenzio. Mentre quel vino che viene bevuto e usato come acqua per lavarsi/purificarsi suggerisce una sorta di transustanziazione laica e ritornano le voci, le invisibili presenze “Chi è? Siete voi? Ma dove siete?… Siamo qui Giuseppe…Dormiamo, dormiamo da 30 anni con questi fiori rossi sopra il petto e cerchiamo…” Loro sono i traditi, i percossi “Ecco Giuseppe anche noi soffriamo e moriamo di nuovo per ogni parola non detta, per ogni sguardo voltato dall’altra parte… Non piangete Giuseppe. Su Giuseppe, veniteci vicino, prendete un po’ di more…”.
E poi processo, appello, condanna, revisione. Un rosario di processi “Devo lavarlo questo nome financo coll’acqua benedetta…”
Fino a quella luce nel buio della sua vita, l’incontro con Michela “Quando vedo lei si rompe il tempo..”, i figli di lei che diventano anche suoi “I figli sono di chi li cresce”, l’arrivo di un nuovo nato William e il nuovo processo del 1990 con la sentenza di ergastolo “Sono a Roma, Michela è accanto a me. Entro ed esco da quel portone. Cosa resterà del mio nome? Che sarà di lei e dei nostri figli? Sono un granello di sabbia signor giudice, un piccolo granello di sabbia rimasto lì nell’ingranaggio…”
Poi arriva il carcere e si spezza la speranza “Maledetto io… Aprite questa maledetta porta…” fino alla riapertura del caso grazie alla testimonianza di un ex carabiniere Renato Olino e ad un nuovo processo celebrato a Reggio Calabria che lo scagiona definitivamente. È il 13 febbraio 2012 “La parola che lava è la stessa che ha lordato… 36 anni sono passati…Una vita intera… Oggi posso lavarlo forse questo nome… Aspetto e tremo.”
Teatro del presente che ci offre un nero rituale, un vuoto assolutamente colmo, sorretto da una scrittura drammaturgica costruita sulla poetica del frammento dove le riflessioni del tempo presente si intrecciano a memorie, a squarci di vita vissuta in una partitura di parole e gesti che spesso attingono alla modalità espressiva della reiterazione. “Passano e spassano gli uomini e le donne… Passano e spassano gli uomini e le donne… Passano e spassano gli uomini e le donne…” che tanto ricorda il verso di T. S. Eliot ne Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock “Nella stanza le donne vanno e vengono / Parlando di Michelangelo.” Prufrock eroe dell’inazione volontaria che lascia scorrere la sua vita senza mai osare e sullo sfondo un mondo degradato e volgare di cui quelle donne sono metafora incisiva. Giuseppe, antieroe per eccellenza, recluso contro la sua volontà, capro espiatorio di un delitto che cela legami indicibili e sullo sfondo misteri, depistaggi, accuse false e amnesie mentre quegli uomini e quelle donne che passano e spassano sono l’emblema di una vita “normale” a lui negata.
Allora importante diventa non tanto il detto quanto ciò che non si esprime, non il filo della razionalità capace di organizzare le pulsioni ma il confronto con il vuoto, l’addentrarsi in quelle zone di solitudine che diventa solitudine collettiva.
Intensa e palpitante l’interpretazione di Salvatore Arena che sa restituire il respiro, le emozioni, il dolore, l’amore, l’attesa e la dignità di un uomo per troppo tempo rimasto senza voce.
Buona vita a Giuseppe Gulotta e lunga vita al teatro!
Giovanna Villella