«U chiacchjiarùni», ovvero il chiacchierone
3 min di lettura«Tinìtulu quattru cà cinqua ᾿u llu pùanu!» («tenetelo in quattro che in cinque non ce la fanno!»
E’ una sorta di calembour che si usa, per celia, quando un tipo, notoriamente innocuo, sbraita e si agita, minacciando di fare una strage di quanti gli stanno attorno, senza che, però, alcuno lo prenda sul serio.
Basta questa espressione lametina per inquadrare un profilo netto e deciso: da paccone, sbruffone, pallone gonfiato, gradasso, smargiasso, millantatore, guascone, ballista, contaballe.
Scegliete voi la voce migliore in questo bel florilegio lessicale: io lo chiamo chiacchierone, forse perché mi piace accostarlo, inconsciamente, al chiacchierino che, come sappiamo, è un tipo di merletto leggero (in fr. frivolité) ad anelli e semicerchi, formati da nodi e pippolini.
Insomma, sono merlettati entrambi, con la dovuta differenza, però! Uno è vero, tangibile, l’altro, laddove non è mendacio pieno, è di gran lunga risibile.
Torniamo al numero quattro, prima di fare ulteriori considerazioni: dalle mie ricerche empiriche, non apodittiche (ci tengo a sottolinearlo), ho avuto modo di notare che viene adoperato, non di rado, per riferirsi a cose dozzinali o a individui di scarsa o nulla importanza, come ad esempio nel detto «uamini ᾿i vinu, ogni quattru nu carrinu», «uomini da vino, quattro per ogni carlino», o nella locuzione «quattru cas’e ᾿nnu fhurnu», «quattro case ed un forno», eccezion fatta per «quattr’uacchji fhanu vista», «quattro occhi fanno vista», col quale si mette in evidenza che le cose riescono certamente meglio, se vengono esaminate da due, anziché da una persona sola.
Detto questo, si comprende chiaramente la portata macchiettista della frase iniziale di quest’articoletto. Intanto, e qui proseguo, non ci troviamo di fronte alla fiabetta Giuanni Benforte che a cinquecento diede la morte di Italo Calvino: alzeremo un livello eroico inesistente, quindi andiamo oltre! Se dovessi fare un esempio più immediato, penserei ad una maschera della commedia d’arte. Quale!?
A Capitan Fracassa (o Capitan Spaventa), ovviamente: è lui che è solito raccontare storie incredibili, a cui crede soltanto lui, unico e solo, ahahah! Tutto fashion col berretto piumato ma battibile sul campo persino da un principiante di strada: Lady Oscar che non era usa alle risate non si sarebbe trattenuta, non credo proprio! Se imbocco i sentieri della letteratura, invece, non posso non pensare al Miles gloriosus di Plauto: questa commedia descrive gli amori avventurosi di Pirgopolinice (alla lettera, “vincitore di torri e di città”), con la cortigiana Filocomasio, amata dal giovane Pleusicle, e le sue peripezie nella casa del vecchio Periplecomeno, che alla fine lo fa per giunta caricare di bastonate.
Alla faccia della forza sansonica, potremmo dire!
Ancor prima del Sarsinate viene Livio Andronico, poeta arcaico della letteratura latina, il cui unico frustulo del «Gladiolus» («Lo spadaccino») riporta «Pulicesne, an cimices an pedes? Responde mihi». Al soldato borioso che si vanta di averne uccisi a centinaia e a migliaia, un interlocutore risponde assai ironicamente: «erano pulci, cimici o pidocchi? Rispondimi».
Della serie, non puoi fare male ad una mosca e pensi di farmela bere proprio tu? Tutt’al più puoi fare strage di insetti, magari con un DDT della Bayer in mano, sempre che tu sappia agitare il flacone, senza restarci secco per imprudenza, non si sa mai, ahahah!
Prof. Francesco Polopoli