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#consiglidilettura Il “Miami Blues” di Willeford che ispirò Quentin Tarantino

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Proposto da Feltrinelli, con traduzione di Emiliano Bussolo, il noir Miami Blues di Charles Willeford ci trascina nella Miami più torbida e accattivante.

Scordatevi della lussuosa Miami Beach scaldata dal caldo sole della Florida, tra palme lussureggianti, spiagge bianchissime e una movida nottura tra le più scintillanti e famose del mondo. Qui siamo in periferia, nella Contea di Miami-Dade ai confini della regione paludosa delle Everglades.

Corruzione del sistema, prostituzione, violenza, omicidi fanno da sfondo alla storia dei due protagonisti (che dividono la scena con l’oscura Miami), due uomini che non potrebbero essere più diversi: da una parte il burbero detective Hoke Moseley e dall’altra Freddy Frenger Jr criminale e brillante psicopatico californiano.

È Freddy, o Junior come lo chiamerà sempre la svampita Susan, ad aprire le danze entrando subito in scena accompagnato da un omicidio del tutto particolare: vittima un Hare Krishna un po’ troppo insistente. Questo l’evento che dà il via ufficiale alla caccia all’omicida e a tutta la storia egregiamente messa in piedi da Willeford.

Lontano dai detective che siamo abituati a vedere in tv, il ruvido Hoke è quasi un antieroe: reduce da un divorzio, cronicamente depresso, in sovrappeso e con la dentiera (seppur sia giovane), sempre squattrinato e vittima di un leggero vittimismo vive in una stanza-tugurio nell’anonimo Eldorado Hotel.

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Charles Willeford

Nella sua stanza il detective spera di trovare ristoro dopo aver lavorato a un quadruplo omicidio, cullato da un bicchiere di brandy. Ma ha commesso un errore: è distratto, rilassato e con la guardia abbassata, per questo non appena bussano alla sua porta non esita ad aprire. Violenza inaudita e sangue – quanto basta – gli fanno perdere i sensi, si sveglierà il giorno dopo in ospedale completamente pesto e con la mandibola spappolata. Chiunque gli abbia teso quell’imboscata picchiandolo selvaggiamente lo ha ripulito: niente più distintivo, niente pistola, niente manette e niente dentiera.

Charles Willeford, dalle cui opere ha tratto ispirazione Quentin Tarantino per Pulp Fiction, tiene incollati i lettori che quasi inarrestabili non possono non farsi prendere dalla foga di leggere quelle pagine. Gli ingredienti del noir ci sono, le scene cruente pure. Eppure i lettori sanno già come sono andate le cose, sanno chi è l’assassino.

Non è infatti l’indagine che li attrae ma l’ossessione, quella che si insinua quando, subito dopo la brutale aggressione e una nuova dentiera, il detective Moseley comincia a cercare il suo aggressore. È l’attesa che ci tiene in pugno, l’attesa ansiogena di quando il cerchio sta per chiudersi ma non sappiamo assolutamente con quali modalità.

Primo libro di una tetralogia scritta tra il 1984 e il 1988, Miami Blues (Feltrinelli, 2017) di Willeford è un particolare viaggio, senza frenesia alcuna, nell’interiorità dei suoi personaggi. L’estrema chiarezza con cui li caratterizza è un sollievo per il lettore che da subito capisce con chi avrà a che fare, questo vale tanto per Freddy quanto per il sergente Moseley: Freddy in fondo è uno psicopatico violento che per un attimo intravede un leggero barlume di redenzione e sogna la tranquillità del focolare domestico con un moglie devota e succube; Hoke, seppur appaia inizialmente solo e privo di una personalità che possa fare la differenza, si rivela un professionista disposto a rimettersi in piedi prima del tempo pur di affrontare, non senza paura, chi lo ha ridotto in fin di vita.

Valentina Dattilo

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