“Cosa rimane dei nostri amori”. Appunti per una lettura
5 min di letturaHeimat è un vocabolo tedesco che non ha un corrispettivo nella lingua italiana né in altre lingue neolatine perché esso racchiude contemporaneamente i significati di patria, terra d’origine, casa, luogo natio, ma anche regione dell’anima intesa come infanzia.
E Caccuri, per Olimpio Talarico, fedele alla topografia meridionale, è tutto questo. Un pezzo di mondo, dove il tempo pare si sia fermato, che diventa il punto prospettico da cui si dipartono e si intrecciano delle storie.
La narrazione avviene attraverso il costante e naturale esercizio dell’immaginazione e della memoria concepite quasi in dialettico accordo tra loro.
Cosa rimane dei nostri amori (Aliberti 2020) è un giallo mediterraneo che parla ai sensi del lettore. D’altra parte, l’attitudine al ritratto paesistico, la fisicità dei personaggi, la melanconia che animano Olimpio dispongono già di una carica vitalistica che esclude a priori qualsiasi rischio di staticità espressiva.
Parla agli occhi e al cuore attraverso paesaggi intrisi di drammatica emotività. Il confronto con i dati di natura innerva l’intera narrazione. Il cielo, le nuvole, gli alberi, il fiume, gli uccelli, il vento, l’alternarsi delle stagioni non costituiscono emblemi, concetti ma la coloratura e la modulazione delle emozioni in tutta la loro libertà.
Parla agli orecchi con le voci della natura, con i “suoni secchi e inafferrabili” delle campane, con la musica e con i versi delle canzoni. D’altronde il titolo del libro è, esso stesso, tratto da una canzone “Que reste-t-il de nos amours” di Charles Trenet che contiene in filigrana molti items o “oggetti d’affezione” che nel romanzo diventeranno elementi narrativi ricorrenti: il vento che bussa alla porta, il fuoco, una vecchia foto, un piccolo villaggio, un campanile, un paesaggio…
Parla al gusto con i tanti piatti della tradizione gastronomica locale.
Parla all’olfatto sprigionando afrori ad ogni pagina: profumi di origano, di legno, cioccolato e peperoncino, il profumo di mandorle tostate e l’adduru di caffè nel bar di Angela ma anche il profumo dei libri. Libri che sono, a pieno titolo, co-protagonisti al pari dei personaggi che popolano il romanzo. Ed è dai libri che si evince l’appassionata attenzione alla vita della letteratura da parte di Olimpio. Dai libri e dagli autori presenti nel romanzo deriva quella sostanza etica che viene ricercata e poi applicata dalla famiglia Jaconis alla propria vita quotidiana.
E attraverso i libri, questo romanzo parla al tatto, perché il libro è uno degli oggetti con i quali si può stabilire un contatto personale, privato, silenzioso, fedele. Si prende in mano, si accarezza, si annusa, si sfoglia, si legge e si rilegge e nelle vite degli altri, viste in controluce, troveremo sempre un riflesso, una fiammella breve o un silenzio che appartiene anche alla nostra vita.
Non solo, il romanzo suggerisce un doppio livello di investigazione: da un lato la ricerca dei colpevoli per l’efferato fatto di sangue di quel lontano 19 marzo 1964, dall’altro in un libro che cita altri libri in una rete di rapporti e di richiami reciproci, il lettore-investigatore cerca di costruire delle trame, dei fili logici, tutti da verificare e tutti ugualmente possibili.
Un’opera complessa, folta di personaggi e densa di vicende, scavata nelle psicologie e nella sostanza morale e sociale di una realtà piccola ma legata a schemi arcaici.
E come in un grande affresco ai personaggi in primo piano è dedicata la stessa cura dei personaggi sullo sfondo. Amilcare Jaconis, il preside pieno di severa risolutezza ma non privo di sollecitudine paterna, un dandy che per tutta la vita ha cercato di coniugare l’etica all’estetica, di pervenire ad una sintesi tra rigore intellettuale e pulizia morale, sua moglie Beatrice bionda e con gli occhi chiari che della donna angelicata porta anche il nome; le tre sorelle Anna, Lucia e Penelope “figlie dei libri” che conservano nel loro destino un’eco cecoviana; l’umbratile Maestro Mario Cantorato; Saverio e Silvia, giovani e belli, uniti dall’amore e dalla morte; i feroci coniugi Pontieri, per i quali il regno animale ci regale due metafore perfette: ippopotamo lui, Beccaccia lei; don Marcello, in bilico tra il cielo e la terra, stretto tra due vocazioni entrambe forti ma (apparentemente) inconciliabili; Pietro inquieto e tenebroso; Nisticò e Garofalo che rappresentano il volto umano della legge pur rimanendo fedeli alla divisa che indossano; l’avvocato Sanzone rozzo e tenace e poi una pletora di altri personaggi pronti a scomparire dopo poche pagine o qualche rigo ma non senza lasciare traccia di sé.
Dalla sua postazione di narratore onnisciente ed equidistante, Olimpio affonda in profondità il suo sguardo in questa realtà che gli appartiene e penetra con curiositas e sapienza nei segreti di una materia umana eternamente umettata da odori e sapori dove la mente di Jacopo Jaconis, protagonista del romanzo chiamato a custodire e a difendere i valori familiari, gli serve da lente di ingrandimento per il suo disinvolto via vai lungo i piani del tempo.
Tutto è narrato in una lingua opulenta, arricchita dallo scandaglio dell’accumulo e dell’elenco, amplificata dalla suggestione di un lessico che attinge dall’alto del linguaggio aulico al basso del dialetto la cui fraseologia idiomatica si rifà direttamente alla tradizione orale, una lingua che passa dalla vaghezza della parola evocativa alla stretta del termine tecnico-giuridico ed è capace di avvolgere nella stessa onda ritmica catene verbali inusitate e metafore audaci dando luogo a frasi che si arrotondano in una corporeità necessaria a dare consistenza e credito ai luoghi, alle persone, ai cibi.
Si esce dalla lettura di Cosa rimane dei nostri amori come si esce da una favola, anche se è una favola nera ma intrisa di quella felicità narrativa che è una delle sensazioni che la letteratura riesce a suscitare solo quando è autentica. E anche per questo può essere legittimamente apparentato a un certo filone della grande letteratura latino-americana con un piccolo omaggio ad Alfonsina Storni “poetessa del mare”.
Giovanna Villella