Della morte ai tempi dei social network
5 min di lettura“La morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è la morte noi non siamo più”. Declamava così, tre secoli prima di Cristo, il filosofo greco Epicuro nell’epistola a Meneceo.
Il tema centrale della morte, nel corso dei secoli, è stato trattato da molti altri filosofi, pensatori del calibro di Platone, Bergson, Heidegger, Camus e Sartre, uomini che hanno provato a darne un significato in rapporto all’esistenza dell’uomo nel mondo. Nel nuovo millennio, con l’avvento dei social network e la loro sempre maggiore presa di posizione al timone della vita dell’intero globo, si è giunti a un naturale cambiamento degli usi e dei costumi della società, anche nel vivere e relazionarsi alla morte.
Un’altra teoria sull’argomento morte è stata elaborata nel 1970 dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kübler Ross con il suo modello diviso in cinque fasi dell’elaborazione del lutto: dalla fase, solitamente primaria, della negazione, passando a quelle della rabbia, della contrattazione e della depressione, fino a quello dell’accettazione che può avvenire anche dopo alcuni anni. Lo schema delineato dalla Kübler Ross era inizialmente riferito alla psiche dei malati terminali, ma in seguito fu allargato a qualunque persona si ritrovi a elaborare la scomparsa dell’”oggetto relazionale”, ovvero di una persona cara.
Ma queste teorie possono essere tradotte nell’era dei social? Possono aver voce nei nuovi modi di rapportarsi alla morte?
Oggi accedere ai social network per commemorare una persona appena scomparsa è diventata una reazione automatica, quasi essenziale per rispondere a un lutto, e che sia la perdita di un famigliare, di un amico stretto o di una personalità dello spettacolo mai vista e né incontrata prima, poco importa. Dalla dipartita della star del cinema o della musica – negli ultimi tempi abbiamo avuto gli esempi delle morti di Paolo Villaggio, David Bowie, George Michael e Robin Williams –, alla morte tragica per via di un attacco terroristico, a quella improvvisa dell’amico o a quella del congiunto dopo una lunga malattia, la differenza non è molta. L’incontrollabile impulso del rendere social l’evento luttuoso prende il sopravvento come naturale dovere.
E dunque si assiste alla condivisione di post, foto ricordo e hashtag commemorativi dedicati alla persona scomparsa, tutte azioni che vanno a intromettersi prepotentemente nell’intimità del dolore dei più stretti famigliari, senza che questi possano minimamente opporsi. È sempre complicato e forse superficiale parlare di un argomento del genere, e si potrebbe far presto a risultare irrispettosi verso un dolore mai comprensibile dall’esterno, da terze persone, ma è importante essere consapevoli del fatto che i nuovi modi di approcciarsi alla morte hanno mutato radicalmente anche la percezione della morte stessa, divenuta mezzo di promozione, argomento di discussione non più ristretto alla piccola cerchia di persone legate allo scomparso ma decuplicato a migliaia e milioni di sconosciuti.
Se da un lato la morte “condivisa” favorisce una maggiore sensibilizzazione e una più rapida trasmissione della notizia, voluta o non voluta dai più vicini consanguinei, dall’altro allontana dal vero senso profondo che la morte ha e dalla sensazione che essa ci trasmette. Si è assottigliato il confine tra la vita e la morte, vissuta come fenomeno collettivo anziché privato e quindi snaturata nella sua vera identità. Così si corre il rischio fondato di far perdere di credibilità un messaggio di cordoglio che può essere realmente sentito, dinanzi alla marea di condoglianze 2.0, “R.i.p.” e chi più ne sa più ne metta, profferite con la leggerezza di un sorso d’acqua; il lutto virtuale svaluta la stessa morte, altera il dolore e tutto ciò fa sicuramente riflettere.
Dal loro punto di vista, intanto, anche i social (con Facebook in testa) si stanno attrezzando per fronteggiare il problema della morte nell’era telematica. Dinanzi alla prospettiva di ospitare il più grande “cimitero virtuale” (tesi sostenuta da una statistica che asserisce la maggiore presenza di profili di persone decedute rispetto a quelle di vivi entro l’anno 2098) Facebook, da qualche tempo, ha varato due opzioni in caso di decesso dell’utente: l’opportunità di nominare qualcuno come gestore del profilo della persona scomparsa, profilo che diviene una sorta di account commemorativo, o quella di eliminare in modo permanente dal più diffuso dei social network (raggiunti i 2 miliardi di iscritti nel mese di giugno) il profilo dell’estinto.
Nello specifico, gli account commemorativi permettono ad amici e famigliari “eredi” del contatto trapassato alcune azioni come scrivere un breve epitaffio digitale, cambiare l’immagine del profilo e condividere ricordi della persona deceduta. Se invece l’utente scomparso non ha preventivamente segnalato la sua volontà digitale post mortem, un parente può provvedere a contattare Facebook segnalando il decesso di un suo iscritto. In tal caso il famigliare dovrà fornire un documento in cui viene certificata la parentela con il proprietario dell’account, oppure il certificato di morte o l’eventuale testamento di quest’ultimo.
Questi gli strumenti messi a disposizione dal principale tra i social network per fronteggiare la nascita di un vera e propria necropoli virtuale che, secondo una stima del 2014, vede già 50 milioni di profili estinti sulla Terra ma vivi nel virtuale con pagine tuttora attive e, in alcuni casi, pure aggiornate da famigliari e amici.
Nuovi modi di interfacciarsi alla morte e nuove azioni derivanti dalla sua inevitabile venuta. Un problema non esclusivo delle piattaforme social, ma un problema ben più esteso: di cultura, di sensibilità e di falsa rappresentazione della realtà che condiziona un percorso intimo e privato come quello del lutto, sempre uguale ma sempre diverso da soggetto a soggetto.
Antonio Pagliuso