Educare alla memoria
8 min di letturaLamezia Terme, 12 luglio 2017, Libreria Sagio Libri di Savina Ruberto. Incontro con Gioacchino Criaco per la presentazione del libro L’agenda ritrovata, Feltrinelli Editore. 7 racconti per ricordare. Per ricordare il giudice Paolo Borsellino a 25 anni dalla strage di Via D’Amelio. 7 autori: Helena Janeczek, Carlo Lucarelli, Vanni Santoni, Alessandro Leogrande, Diego De Silva, Gioacchino Criaco, Evelina Santangelo. Un unico tema: quella agenda rossa misteriosamente scomparsa dopo l’attentato. Eppure Paolo la portava sempre con sé… Una geografia letteraria che va dalle Alpi alla Sicilia, con stili e coinvolgimenti emotivi diversi e per una volta la Calabria non è terra di transito ma terra di ritorno, di migrazione al contrario. A darle voce e cuore la penna di Gioacchino Criaco che, come il protagonista del suo racconto La memoria del lupo, è ritornato per fare pace con il suo mondo, per “ritrovarsi”.
La struttura calibrata del racconto si snoda lentamente quasi come in una sequenza cinematografica. Si parte da un interno che come in un gioco di specchi mostra un altro interno dove si è appena consumato un delitto alla maniera di Hitchcock, senza una goccia di sangue, e si ferma su un particolare: “gli occhi” dell’assassino. Poi un rapido flashback stile murder mistery per dare ragguagli sull’antefatto con una sequela di omicidi e un unico sopravvissuto, Giovanni, che riceve un dono inatteso. Con uno scarto temporale la storia ritorna nel perimetro della contemporaneità. Esterno/giorno, Aeroporto Tito Minniti di Reggio Calabria, taxi, stazione… e qui, su un treno, uno di quelli a scartamento ridotto, una littorina, inizia l’anabasi di Giovanni, il suo viaggio nelle tenebre che nel primo fotogramma assume l’ingannevole dolcezza dell’infanzia per ritornare prepotentemente nella realtà con una natura mare/monti dalla sfacciata bellezza profanata da “ferri penduli e mattoni scalcinati” che fanno del non-finito calabrese una categoria “etica” più che “estetica” e del popolo calabro un popolo d’Avvento immerso nel passato e in un futuro mistico in attesa di qualcosa che non arriva, un popolo in “sospeso” quanto Godot tiene in sospeso Vladimir ed Estragon.
In dissolvenza lo sguardo si allarga in un esterno giorno, tiepido e assolato, che con movimento panoramico offre alla vista un agrumeto che spande tutt’intorno i suoi profumi e poi, in soggettiva, un muto dialogo di sguardi con delle foto poste su quelle lapidi senza salma che appaiono, inaspettate, in tante stradine di campagna. Poi la caserma, l’incontro con la sorella Agata e il suo viaggio nel cuore di quella montagna che “…non è solo una montagna. È un mondo. Un pianeta antico. Un sistema di regole millenarie”, è il suo cuore e prima ancora il cuore di suo padre e infine l’incontro con l’assassino. Ma qui, in Giovanni si palesa l’homo duplex in cui la dichiarata fedeltà alla legge in quanto superiore all’individuo è accompagnata da un forte senso di fedeltà all’individuo, per cui il tradimento contro l’individuo è il crimine più profondamente sentito… E così il ritrovamento dell’agenda rossa diventa il segno-simbolo di una profonda dedizione all’ordine, nella società come nell’io ma anche una incorreggibile solidarietà verso il fuorilegge, sia nella società sia nell’io.
Fin qui la finzione che, nel tema del viaggio, si intreccia intimamente con la vita dell’autore.
“La libertà non può esserci nel nascondimento – dice Gioacchino parlando del protagonista del suo racconto. I suoi 25 anni di fughe e cambi di identità non lo hanno mai fatto sentire libero. Giovanni per essere libero non poteva essere John o Oliver, doveva essere Giovanni e doveva conoscere il suo mondo dove lui torna e ritrova la sorella. Nessuno di noi può essere libero se non conosce il proprio mondo perché c’è un patrimonio di idee e di culture che ti deve appartenere perché ci si possa sentirti liberi. Giovanni è stato prigioniero per tutta la vita perché quel patrimonio ideale non lo possedeva. Io non vengo da Oxford e i miei compagni di gioco non erano collegiali ma persone che sono diventate terribili e anche io sono fuggito da quel mondo ma non ero libero, la mia libertà io l’ho riacquistata scrivendo perché la letteratura rende liberi, è un formidabile esercito di liberazione. La letteratura attua il primo cambiamento in chi scrive. Chi scrive diventa una persona migliore. Il nostro mondo ha delle cose da insegnare ma spesso si sfugge. Io adesso il mio mondo lo capisco e sono libero nelle mie scelte e per me è il migliore dei mondi anche se vivo da un’altra parte. Anche io mi sono ritrovato sulla littorina con l’aria condizionata che non funzionava, con afrori di uomini e di toilette e odori di fiori gelsomini, zagare, oleandri. Un mondo tragicamente fatato, con il mare e la montagna e quelle case incompiute che sono comunque un’opera d’arte, un non finito personalizzato e che non sono dovuta solo all’incuria ma ad un modo di essere tutto nostro. Anche nel rapporto con il mare, il mio è un paese che per millenni è stato su in montagna e che è diventato marino per una pseudo alluvione. Gli abitanti di Africo si mettevano spalle al mare e guardavano il monte Scapparrone come si guarda il ritratto di famiglia. Noi bambini per sperare di andare al mare si doveva aspettare qualche parente emigrato che tornava per le vacanze. E i miei ricordi sono legati ad uno zio francese che quando tornava ci portava al mare percorrendo a piedi la statale e io ho ancora negli occhi le more sui rovi, gli oleandri, i rododendri. La magnificenza di una natura che dovrebbe partorire solo felicità…”
E ancora la sua entusiastica adesione all’idea di partecipare alla scrittura di questo libro nato dalla volontà di una piccola associazione di Bollate, L’Orablù, e degli scrittori Marco Balzano e Gianni Biondillo. Il suo omaggio alla memoria di Paolo Borsellino nella scelta di scrivere un racconto centrato sul ritrovamento dell’agenda rossa e di partire da un personaggio anziano “Sono partito da un personaggio che era vecchio e ho visto tutta la sua vita, ho visto tutta la vita di quell’uomo che era disteso dentro una farmacia perché, dal mio punto di vista, era necessario dare umanità ad una morte che era stata terribile, c’erano brandelli di uomini ma non c’erano più gli uomini. Quindi bisognava ricostruire l’umanità e così quel giudice disfatto nel corpo viene ricostituito nel corpo di un anziano intorno al quale non c’è neanche sangue. La storia che mi ha affascinato è quella di una persona non più giovanissima che sapeva di dover morire ma non rinunciava ad andare a trovare la madre perché sentiva la necessità di avere una conferma alle sue idee, di fugare i suoi dubbi. È questa la figura dell’anziano nel senso nobile del termine.”
E nella figura di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, Gioacchino vede soprattutto il suo dramma, la sua storia intima di dolore, quel vuoto affettivo che è la storia di tutta una famiglia che da 25 anni sta aspettando la verità “Nel mio racconto, il reduce, stanco di scappare, va alla ricerca della verità. Un segreto che spiazza perché afferisce alla sfera intima. Anche l’assassino viene umanizzato, diventa una persona che ha delle spiegazioni da dare, non ha una giustificazione, ma ha delle spiegazioni e le spiegazioni sono terribili perché dimostrano a Giovanni che lui è stato solo uno strumento, i mostri veri sono quelli che appartengono allo Stato… Ecco la morte di Paolo è servita a mostrare e a dimostrare che il nemico principale era quella parte dello Stato che è davvero colpevole di ciò che è successo… Amare la verità può portar anche all’infelicità ma c’è una stirpe di uomini che non può vivere senza la verità. Paolo Borsellino è stato un uomo leale e a sua lealtà non può essere discussa ma volere la verità a tutti i costi può portare anche al sacrificio estremo…”
A dialogare con Gioacchino Criaco una giovane studentessa di giurisprudenza, Silvia Camerino, che da anni sta svolgendo un certosino lavoro di memoria raccogliendo le testimonianze dei sopravvissuti alle stragi e dei familiari delle vittime di mafia. Palermo è la sua seconda casa e Salvatore Borsellino un suo amico che ama ripeterle “Chi smette di sperare perde il diritto di parlare. La speranza è ottimismo”.
Dopo aver ricordato i nomi degli agenti della scorta trucidati, insieme al giudice Borsellino, in Via D’Amelio quel 19 luglio del 1992, alle ore 16.58, con 100 kg di tritolo: Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, la sua preziosa testimonianza principia col brano dell’ultima lettera scritta da Paolo e indirizzata ad una insegnante “Oggi non è il giorno più adatto per rispondere perché frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli che vedo raramente perché dormono quando esco da casa e al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo quasi sempre addormentati. Avevo scelto di rimanere in Sicilia e a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente ma se amavo questa terra di essa dovevo esclusivamente occuparmi. Non ho più lasciato questo lavoro. Da quel giorno mi occupo pressoché esclusivamente di criminalità mafiosa e sono ottimista perché vedo che verso di essa, siciliani e non, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai 40 anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.” Morirà 12 ore dopo.
Toccante e ammirevole l’impegno che Silvia profonde in questo esercizio della memoria “Durante le prime interviste non sapevo come comportarmi. Ho intervistato tutti i familiari delle vittime delle stragi e ho seguito Salvatore Borsellino. Io volevo capire le stragi. Volevo conoscere il giudice Borsellino. Inizialmente non riuscivo ad essere imparziale. Trattenevo le lacrime. Ma Salvatore mi rimbrottava sempre “No tu no devi piangere, tu devi resistere, ti devi arrabbiare, quando parli di mafia devi essere arrabbiata, quando parli di Paolo tu devi ricordare, devi rinnovare la memoria.” Quindi, a modo mio, con le poche armi che avevo giravo per le strade di Palermo cercando Paolo. Sono arrivata a Mondello con un registratore e dei sandali e chiedevo “Ma Paolo è vivo?” “Chi è Paolo?”, mi rispondeva la gente stranita… Cercavo di costruire una storia, quando incontravo i familiari delle vittime di mafia io ponevo tanto domande e cercavo di immedesimarmi… Per Paolo, restare a Palermo è stata la sua scelta d’amore.” E poi quel ricordo toccante della madre di Paolo che subito dopo la strage vuole incontrare le madri degli agenti uccisi, per baciare loro le mani e ringraziarle. Da madre a madre… E ancora le celebrazioni del 19 luglio con Salvatore che, commosso, legge la poesia “Giudice Paolo” scritta da Marilena Monti e l’esperienza alla Casa di Paolo con i volontari che fanno con i bambini una straordinaria opera di educazione alla memoria. Una scelta di coraggio e di speranza nel ricordo di un uomo che è diventato un “eroe” suo malgrado.
Giovanna Villella
[ph Ippolita Luzzo]