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IL GIEFFEVIP, IL NAZISMO E LA TV DELLA REALTA’

5 min di lettura
“Per me è veramente una rinascita”, dice Daniele Bossari in un eccesso di commozione durante la sua proclamazione a vincitore di questa seconda edizione del
Grande Fratello Vip. Che è stata una delle edizioni più viste in assoluto della storia del programma, che ha eguagliato le punte inedite di share di 7 anni fa (lo leggo sul web, dove si scopre che allora vinse tale Mauro Marin, tritato masticato e dimenticato pressoché istantaneamente), che ha esibito una sceneggiatura perfetta (certo, di sceneggiatura si deve parlare: scelta dei protagonisti fatta in maniera impeccabile, canovaccio da seguire e poi libera improvvisazione concessa agli attori, scelti anche in base alla loro bravura in questo), che ha sedotto per 90 giorni quasi 5.000.000 di spettatori con punte, in finale, oltre i 5.600.000. Numeri da capogiro. Che dicono, a chiunque voglia sminuirne il senso con un atteggiamento -ormai demodè , mi si conceda- di ostentata superiorità intellettuale, che il Grande Fratello oggi più che mai riassume dentro e su di sé tracce di orwelliana verità, della realtà che ci circonda e di quella che stiamo invece vivendo.
VITTORIA!
Partiamo proprio dal vincitore, quel Daniele Bossari che a 43 anni sembra un ragazzino (oggi lo siamo fino a 60, dai), e che ha battuto, incredibilmente ma non troppo, Luca Onestini, ex tronista di Uomini & Donne, ex Mister Italia, ex tentatore di Temptation Island (e scusate il curriculum), preannunciato forse da un percorso in salita ma innegabilmente solare, costeggiato da piccole sequenze di verità che sono trasparse durante il suo “percorso”. Perché di “percorso” piace tanto parlare ai protagonisti del #GFVIP, concorrenti che sono applauditi se “sono veri”, se diventano più uomini o più saggi, se addirittura dimenticano le differenze tra realtà e finzione televisiva e addirittura danno brusche sterzate (positive, s’intende) alla propria vita davanti a milioni di assetati voyeur. E proprio il buon Daniele è stato il centro focale del programma, involontario testimonial, inconsapevole cartina al tornasole: protagonista decenni fa di una semi florida stagione televisiva, Bossari ha sempre condotto programmi un pelo sotto all’esplosione di popolarità. Sempre sul punto di “diventare famoso”, sempre con quel buon gusto che lo ha legato ad un basso profilo, ha mostrato il dark side dello show business confessando il suo alcolismo e la sua depressione nei momenti in cui la tacca sotto la soglia del largo successo lo hanno destrutturato, conquistando a furor di popolo il titolo di buon samaritano, di figliol prodigo, di resuscitato, insieme alla sua sodale Filippa Lagerback, “incarnazione Ikea della signorina buonasera” (che a rigore diventa quindi Signorina Godkvall) complementari e perfetti nello sguaiato mondo della tv. Hanno fatto outing, perché da conduttore a concorrente il passo è breve, la prospettiva cambia e a sbracare non ci vuole nulla: e la proposta di matrimonio urbis et orbis è stata esemplare cortocircuito di buon/cattivo gusto.
LA VITA VERA: LA VERITA’ NELLA VITA
Si parlava prima di “vita vera”: si, perché volenti o nolenti gli spettatori, i dubbiosi, i critici e i superiori, in 90 giorni di occhiuta, spiata se pur dorata prigionia, le 4 ore di diretta suonano irrimediabilmente tutte le corde della vita vera: tradimenti, amori, bugie e pianti, liti e bestemmie da osteria, tutto sotto le luci smarmellate che guardano da vicino a Boris e a Barbara D’Urso ma sottolineano l’ovvio. Ovvero, che ormai il Grande Fratello (tra pochi alti e molti bassi) conferma la geniale e inquietante intuizione orwelliana, declinata secondo le regole del format. Se una volta la televisione si limitava a proporre la realtà spiando dal buco della serratura o nei casi migliori incoronando i cinque wharoliani minuti di vanità che merita ogni essere vivente, adesso invece la realtà la (ri)crea proprio, deformata a secondo del palcoscenico o della telecamera, ma non certo meno vera, percepita e percepibile, tangibile e concreta. È il frutto estremo di una società che vetrinizza sé stessa, dove il Grande Fratello, piaccia o meno, è uno strumento contemporaneo per capirci perché ci fa capire come la realtà la viviamo e come la costruiamo, come la desideriamo e come la subiamo. E le differenze con il primissimo Grande Fratello possono rendere meglio il senso: se ai tempi del compianto Pietro Taricone c’era la curiosità per questo format nuovo, questa sorta di esperimento sociale che metteva sotto vuoto dieci caratteri e li lasciava chiusi in loro stessi per 100 giorni, “per vedere ‘sti stupidi dove volevano arrivare”; diciassette anni dopo la sua forza attrattiva è rimasta inalterata, seppure basata su forze diverse. Perché oggi è il piacere un po’ sadico di vedere le reazioni delle cavie in cattività quando la vita, bella o brutta, gli si srotola addosso, davanti e sopra; piacere ancora più gustoso se le cavie sono strafamose (come un Malgioglio qualunque), sopravvissute alla loro stessa fama (Grandi, Clery) o facciano da contorno al piatto forte.
HAIL MEDIASET
C’è poi la conduzione, che è cambiata in senso inverso, diametralmente opposto e se vogliamo con parametri inversamente proporzionali. Se all’inizio era Daria Bignardi, con il suo còte culturale e il suo background medio-alto a far da cornice all’osservazione; il percorso è poi proseguito con le smorfie della D’Urso già citata e con le guaine finto-informali di Alessia Marcuzzi. Ma il colpo di genio è arrivato proprio con l’edizione “vip”, che ha visto affiancati una professionista con un curriculum di rispetto come la Blasy (viene dalla scuola delle Iene, ha quindi il pelo sullo stomaco e necessari anticorpi al conformismo) e il contraltare Signorini, vero “servo del Regime” che contribilancia a perfezione l’anarchia della sua bella co-conduttrice. Là dove la Blasy, baluardo del metatesto con il marito sempre pronto dietro le quinte ad irrompere sulla scena, potrebbe o parrebbe slegarsi troppo dal canovaccio precostituito, ci pensa lui, l’alfiere di Silvio e di Mediaset sempre e comunque, a rimettere tutto sui giusti binari, a riportare la disgustosa “anormalità della normalità” su ogni eccesso, secondo lui da redarguire e sottomettere. Si, perché “sottomettere” è proprio la parola giusta da utilizzare quando si descrive la conduzione di questo Grande Fratello: il servilismo di Signorini, che altro non è se letterario donabbondismo, rivela un guanto di ferro in pugno di velluto quando si tratta di sottolineare la belluina ignoranza di Giulia De Lellis; ma finisce per essere disgustoso e fascista quando il microfono del conduttore è utilizzato come strumento
del potere per zittire chi dissente e chi ha un’opinione (giusta o meno, che importanza ha?) da quella del Signorini di turno.
TESI, ANTITESI E SINTESI
Insomma, non è certo questo il luogo per alzare gli scudi o portare gli allori sul Grande Fratello. Ma giusto l’occasione per evidenziare come, da programma di massa non sia -ancora- massificato ma porti ancora le stimmate di una mission antropologica non da poco, quella di mostrarci (nonostante, probabilmente, le intenzioni di Alfonso) quello che siamo diventati. E quello che, nonostante tutto, potremmo ancora essere.
GianLorenzo Franzì
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