Il caso Mahmood
3 min di letturaAi margini di un post insolente, estrapolato dal facecircuto, mi va di aggiungere qualche parola in riga come voce di dissenso
Non entro in merito alle discussioni del post Festival: è stato un colpo delle élite contro la volontà sovrana del popolo? Cui prodest (“a chi giova?”) et cui bono (“chi ne beneficia”?) sentenzierebbe un buon Romano.
I problemi, quelli più seri, stanno da tutt’altra parte.
Tuttavia, mi va di difendere la tradizione musicale rappresentata da un trio femminile d’eccezione, che, ancora, tra ieri ed oggi, fa costume, cultura e società, così come è giusto, d’altro canto, anche ricomporre l’immagine di un italo-egiziano, fatta a pezzi tra strumentalizzazioni o polemiche.
Che il testo vincitore abbia un difetto argomentativo ce ne siamo resi conto un po’ tutti: d’altronde, è dell’era del berlusconismo un linguaggio non specificatamente distinto, lontano dai princìpi d’identità e di non contraddizione; quindi, non fa meraviglia!
Volendone preservare lo spirito, però, non può non colpire l’espressione musicata “bevi champagne sotto ramadan” che è come dire “predichi bene e razzoli male”: nulla di blasfemo, solo un’occasione per smascherare l’ipocrisia che è un Festival un po’ovunque, oramai!
“Abbiamo due tipi di morale fianco a fianco: una che predichiamo, ma non pratichiamo, e un’altra che pratichiamo, ma di rado predichiamo”, avrebbe detto anche Bertrand Russell, oppure Fallaces sunt rerum species et hominum spes hominum (le apparenze sono ingannevoli e tradiscono le speranze degli uomini), che è una nota sentenza latina.
Insomma, tutto ciò che ha incarnato, a malo modo, la figura paterna di Mahmood.
La canzone, arabeggiante dal narghilè fino a piccoli incisi lessicali (“Waladi waladi habibi ta’aleena”, “figlio mio, figlio mio, amore vieni qua”), attua, poi, una desacralizzazione materialistica; il cantante spende le parole contro la falsità ed il denaro, in tutto questo, batte cassa solo per esserne un conto salato: amaro ed inutile, perciò!
Per il resto l’eco del ricordo di un padre che se ne è andato e non è più tornato, motivo che alza il livello della canzonetta nella storia graffiante dell’autore.
Suo padre, infatti, ha fatto proprio “come padre Zappata, o fra Pasquale, che predicava bene e razzolava male”, o a voler semplificare ancora di più, le parti del gallo in un pollaio. Perché?
La razzolatrice “più in gamba” è, infatti, la gallina che cerca nella terra sassolini e quanto altro può essere utile per “costruire” il guscio delle uova; mentre, “l’ugola d’oro” del cortile, razzola molto di rado: fuor di metafora, è della madre la premura che lui ricorda per sé, mentre, della figura paterna, ahimè, per lui, una persona “virtuosa” solo a parole, perché nei fatti ha dato esempi tutt’altro che lodevoli.
Spunti per riflettere su tante situazioni familiari in Italia: e non sono poche, nel dramma di (chi) è diviso e non con-diviso.
Prof. Francesco Polopoli