Il mercante e la figlia
5 min di letturaSi tratta di un soggetto tra i più popolari e diffusi al mondo, che mescola elementi tanto della fiaba di Cenerentola che di Pelle d’Asino – con accostamenti avvicinabili alla Doralice di Straparola e all’orsa di Barile, ma pure a Dognipelo e alla Principessa Pel di topo dei fratelli Grimm, a Perrault, alla Betta Pilusa della tradizione siciliana raccolta da Laura Gonzebach o alla Dattero-bel-dattero di PitrèMaria Stella, la giovane bruzia di questa fiabetta, era figlia di due mercanti: quanto l’accomunava con la mamma era il vezzo di essersi fatto incastonare un granello d’oro in uno dei suoi denti.
Forse, un segno scaramantico: più probabilmente una tradizione matrilineare cui nessuno si era più sottratto nel tempo. La poveretta rimase orfana inaspettatamente: le braccia di Morfeo, una notte di pioggia invernale, accompagnarono sua mamma dritta dritta da Orfeo, ma al cospetto degli Inferi, purtroppo!
Il padre pensò di farla maritare prima possibile, contando di investire il tempo che gli sarebbe toccato vivere tra la vendita di allettanti mercanzie e piaceri cui concedersi, senza darsi più pensiero della famiglia, di chi gli era rimasto, insomma! La figlia, come era prevedibile, sprofondò nella più cupa disperazione, anche perché non le andò giù di convolare a nozze nel più breve tempo possibile: in tutto questo, fortunatamente, le fu vicino il suo confessore, Fra Umile.
Quando suo papà le propose un partito, a suo dire, invogliante, lei, su invito della sua guida spirituale, assentì (a patto che il futuro consorte le avrebbe dato in dono tre abiti capaci di contenere: uno, il cielo; l’altro, la terra, il mare con tutti i pesci; l’altro ancora, l’ultimo, cioè, con tutto il mondo com’è composto). Nel vederseli porgere, rimase basita, sicura che tutto ciò non potesse essere stato compiuto da mani d’uomo.
«Figliuola, guarda che il tuo babbo ha fatto un patto col diavolo: ora, comprati una pelle di capretto, prendi con te le vesti che lui stesso ti ha consegnato e vattene spersa per le strade del mondo»: fu quanto la miserella si sentì dire, perentoriamente, dal suo buon Pastore. E così partì sola e sconsolata, non avendo possibilità cui appellarsi per potersi riscattare. Cammina cammina, s’imbatté in una serva, alla quale si presentò col nome di Betta Pelosa e cui, sollevandosi sulle spalle, chiese se qualcuno nei paraggi l’avrebbe potuta assoldare per qualche mansione.
«Come no! Ci serve una che faccia il pastone per le galline: vieni che ti presento al mio Re». Presto detto, finì veramente in un pollaio: che tristezza! Erano, quelli, giorni convulsi a palazzo, perché si preparavano tre giorni di ballo in onore di un suo fido consigliere, da poco guarito da una brutta influenza stagionale, che aveva messo in serio rischio la sua stessa incolumità. Betta, vestita a stracci, cogitò di scostarsi dai suoi simpatici pulcini, tutti a lei ammammati, per concedersi un’uscita straordinaria: avrebbe fatto una comparsata, per sparire per sempre, cosa sarebbe importato!?
Mani ai suoi abiti posti in guardaroba e voilà, eccola apparire, meglio di una Principessa, nel pieno della Sala di quel Reame, dove tutti gli sguardi, a mo’ di riflettori, rimasero folgorati di fronte a cotanto portamento.
Alla fine della serata, il Sovrano pensò di omaggiare la sua eleganza, offrendole una catena d’oro, con la premura condizionata di far seguire quella donna, per conoscerne l’identità.
Lei, per converso, seminò le guardie reali, dileguandosi tra i gettoni d’oro che lasciava dietro, perché si potessero raccogliere a bottino; circostanza che si ripeté nelle serate a seguire, con indosso un orologio ed un anello, tempestati delle più preziose tar le perle, sempre in regalo per lei, a congedo delle danze, nel secondo e nel terzo appuntamento vespertino, e la solita fuga, immersa nel mistero più fitto.
Quel regnante, per il gran dispiacere, si ammalò, dal momento che non era riuscito a sapere chi fosse ed ordinò ai suoi servi di fargli un pan di Spagna, corretto da Rum, per affogare nella gola il suo magone. Betta Pelosa non esitò, durante la preparazione dell’impasto, a prendere un pezzetto del preparato per farne una pagnottella, dove invece pensò di nascondere i monili di Sua Maestà.
Purtroppo il forno del cuciniere scodellò un brutto dolce per nulla spugnoso (’na toppa!) e si sarebbe al gridato al dramma, se qualcuno non si fosse ricordato della porzione mancante, che l’addetta alle galline aveva preso per sé. Non c’era tempo da perdere: l’ora della merenda andava rispettata e Betta Pelosa era l’unica a poter concedere una leccornia sostitutiva in quel momento. Il re ebbe tra le mani un dolcetto deliziosissimo, che addentò insieme alle gioie in esso contenuto: non mandò giù nulla, tranne sollevare la domanda di chi fosse autore di quel manicaretto.
Fu mandata la miserella che si gli presentò nei panni di Maria Stella: il regnante si sentì profondamente ripagato da questo ritrovamento, che salutò come colpo di fulmine ed innamoramento. Per inciso, lui, mordendo ci perse un incisivo, ma lo sostituì con una gemma, finendo con l’appaiarsi a lei, in tutto e per tutto, visto che ne portava pure lei uno da tempo, come sappiamo, dalla sua non facile adolescenza.
Alla fin fine si combinò il matrimonio (“chi si somiglia, si piglia”): loro vissero felici e contenti, benché avessero ambedue perso ma riparato dei denti. Una professione in fieri ed in fiaba, calabresemente incapsulata, pensate un po’!
Alla professoressa Luciana Parlati, il cui insegnamento ha saputo ben investire i tanti talenti con quell’ingrediente capace di renderli più preziosi: nel piacere di scoprirsi, un sorriso d’umanità, grazie!
Prof. Francesco Polopoli