Il nuovo vescovo mons. Schillaci: “Qui a Lamezia mi sento a casa”
11 min di letturaLAMEZIA. Mons. Giuseppe Schillaci, nuovo vescovo di Lamezia, a conclusione della celebrazione per la sua ordinazione episcopale, ha pronunciato la sua prima omelia nelle nuove vesti di pastore diocesano.
Di seguito il testo: “La preghiera di colletta, con la quale abbiamo supplicato il Signore, all’inizio della nostra celebrazione, ci ha posto nell’ottica giusta per cercare di capire l’identità e la missione del Vescovo, il quale solo tenendo lo sguardo fisso sul Cristo, Supremo Pastore, può pensare di radunare e guidare il popolo che gli viene affidato. È con questo sguardo rivolto anzitutto al Cristo che vorrei provare a guardare, questa sera, tutti voi, carissimi fratelli e sorelle. Ma mi vien da dire ancor di più, se provassi, anzi se provassimo a guardare gli altri come Cristo guarda ciascuno di noi, quale meraviglia, quale bellezza si dischiuderebbe dinanzi a noi in ogni momento, in ogni situazione, in ogni incontro, soprattutto quando la realtà, costellata da difficoltà, non priva di incognite e contraddizioni, ci appare triste e cupa, ed ogni cosa si rivela incerta, disperata, quasi irredimibile…; è con uno sguardo oltre; è con uno sguardo altro: è con lo sguardo di Gesù Cristo che dovremmo provare a guardare la nostra storia, tutta la nostra umanità! Lasciamoci raggiungere da questo sguardo, il Suo, per guardare in Lui, con Lui, per Lui…Siamo suoi discepoli e come tali vogliamo prima di tutto pensarci; avviciniamoci a Cristo, per seguirlo ed imparare da Lui; è un esercizio che bisogna fare incessantemente, sempre, per chiamarci ed essere veramente suoi discepoli; più ci avviciniamo a Lui, più ci stringiamo a Lui, più si dilatano i confini, più si allargano gli orizzonti, non solo geografici; irrompe nella nostra vita una visione! È la visione di Cristo: che diventi la nostra! È un’apertura infinita, senza limiti; è bontà; è misericordia.
È lo stile di Cristo! Che diventi il nostro stile, il nostro essere; per essere semplicemente cristiani, o meglio per diventare sempre più cristiani, cioè di Cristo, quindi capaci di guardare come Lui guarda l’uomo, ogni uomo, nessuno escluso…; se ci lascia afferrare da Cristo ed inquietare dal suo Vangelo, cresciamo in umanità e in fraternità. Simone Weil (1909-1943) mistica e filosofa francese scrivendo al padre domenicano, quasi cieco dalla nascita, Joseph-Marie Perrin (1905-2002) sosteneva: “La religione non consiste in altro che in uno sguardo” (Attesa di Dio, 155). Sì è proprio una visione, è un’apertura incessante, lo sguardo del credente che incrocia quello del Signore per condividere le sofferenze e le fatiche di una umanità smarrita e stanca. Guardiamola, custodiamola, abbracciamola, questa umanità (tutta l’umanità e in particolare penso agli uomini e alle donne del nostro territorio, del lametino) senza paura, senza fare preferenze di persona, senza discriminazioni, senza scarti, come Gesù, con uno sguardo sempre più inclusivo, positivo, bello, sempre altro, speranzoso. Dio, infatti, facendosi uomo ha raggiunto ogni uomo, sì proprio ogni uomo, ci ricorda sapientemente il Concilio Vaticano II (cfr. Gaudium et spes 22).
Il discepolo che si lascia prendere dal Maestro lo segue nel suo modo di vedere, nel suo modo di ascoltare, nel suo modo di sentire. Per entrare in questo sguardo, in questa visione, ci si mette in ascolto, ma è necessario mettersi sempre più in ascolto. Ascoltare il Signore, per ascoltare gli altri, per ascoltare tutti, tutto. Non si può pensare di capire, di discernere, senza capacità di ascolto. Prima di tutto bisogna ascoltare e saper ascoltare. Non è facile! Tuttavia quant’è necessario imparare quest’arte nobile, difficile, bella…. Permettetemi un piccolo ricordo personale: quando ero un ragazzino 11/12 anni, non di rado in estate, di notte, aiutavo mio padre ad irrigare le piante di arance, con un esercizio non molto complesso, che era quello di tenere il lume, tuttavia per un ragazzo, di notte e anche un po’ assonnato, non sempre risultava agevole; mi rivedo, ragazzino, con mio padre che non rinunciava ad associare fatica e riflessione, che ad un certo punto nel cuore della notte, mi invitava a fare attenzione e ad ascoltare i rumori: lo scroscio dall’acqua che scorreva e giungeva benefica a dissetare la terra arida e assetata, il soffio della brezza leggera che, in certi momenti, ci raggiungeva anch’essa come una benedizione per alleviare sforzo e sudore… più tardi con lo studio, accostando questa fatica all’altra, quella brezza, per esempio, mi avrebbe ricordato quel “fine e sottile silenzio” di cui parla la scrittura nel primo libro dei Re 19, 6, nel ciclo del profeta Elia. Non ho dimenticato quell’invito da parte di papà ad ascoltare! “Shema’ Israel…Ascolta Israele (Deuteromio 6,4)”: è il comando del Signore. “La fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (Rm 10, 17). Quale grande e prezioso dono nella vita: incontrare persone che ti accompagnano, con delicatezza e rispetto, nella scoperta di quello che c’è oltre il dato immediato, per cercare di capire, con attenzione, cura, passione, il proprio vissuto esistenziale, ma anche ogni frammento della realtà che ci circonda, lasciando venir fuori dinamismo e ricchezza di senso.
Ma è ancor più grande, bello e straordinario, quando le stesse persone ti aiutano a saper ascoltare il grido e l’appello di chi non ha niente di niente, del sofferente, dell’affamato, del carcerato, del forestiero, del povero, di chi non ha voce, e saper incontrare così il Signore nel “sacramento del fratello” (San Giovanni Crisostomo). L’ascolto è apertura che rifugge da ogni chiusura in se stessi. Chi ascolta con sincerità non può essere indifferente. L’ascolto vero è attenzione, coinvolgimento, cura! Certo ascoltare esige tempo, pazienza. In un’epoca in cui tutto è accelerato, è l’impazienza che, purtroppo, prende il sopravvento. Tutto ciò sembrerebbe essere un’impresa, una scommessa. Ma perché no? Ne vale la pena! L’ascolto vero è un invito ad uscire da se stessi, per cui il centro del mondo non sono io, i miei progetti, le mie cose, le mie idee. Quando mi metto in ascolto, è come se il centro fosse posto fuori di me: c’è altro, c’è un Altro. Lasciamoci plasmare e trasformare da questa Parola Alta e Altra: è la parola di Gesù Maestro; nutriamoci della sua Parola per poterla annunciare veramente. Lasciamoci continuamente rigenerare, come Chiesa, dalla Parola del Vangelo che ascoltiamo, meditiamo, preghiamo e mettiamo in pratica.
È il Vangelo che bisogna ascoltare; è con il Vangelo che occorre misurarsi, come “norma normans non normata”: sì proprio il Vangelo che abbiamo visto aperto, dopo l’imposizione delle mani, durante la preghiera di ordinazione, posto sul mio capo. È con il Vangelo che bisogna fare i conti, non per scoraggiarsi, ma al contrario per ritrovare freschezza, energia, entusiasmo. Guai a me se non annunciassi il Vangelo ci dice Paolo (cfr. 1Cor 9,16). Si annuncia quello che si ascolta, che si assimila e che si cerca di mettere in pratica. Si annuncia sempre e se è necessario anche con le parole. È questa la vita di ogni buon discepolo di Gesù. La Chiesa ha questa misura alta, un cristiano non ha altro programma da mettere in atto: vivere e testimoniare il Vangelo! Un prete, un presbiterio, un Vescovo, non ha altro programma: il Vangelo! E allora: ascoltiamolo il Vangelo, ascoltiamo Gesù…che “non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28). Il servizio per un discepolo significa conformarsi allo stile di vita di Cristo. Ogni buon discepolo, infatti, non vuole mai esercitare sull’altro e sugli altri nessuna forma di potere, per cui abbracciare la forma del servizio significa prendere decisamente le distanze da ogni logica che mira al dominio e al controllo sugli altri e degli altri. Tutto ciò comporta rinunciare ad uno stile di vita che cerca tornaconto ed interesse personale o che si serve dell’uso della forza e della violenza solo per un desiderio sfrenato di potere. Questo è il motivo per cui il cristiano non può mai condividere percorsi che privilegiano o accarezzano logiche malavitose di violenza, palesi o subdole, perché semplicemente contraddicono il Vangelo. Quando la madre dei figli di Zebedeo si avvicina a Gesù per chiedergli che i propri figli stiano uno a destra e l’altro sinistra, agli dieci discepoli che nel frattempo si erano sdegnati con i due fratelli, come un vero Maestro sa fare, il Signore Gesù non smette di insegnare loro, e amorevolmente chiamandoli ed attirandoli a sé, al suo stile, alla sua vita dice: “Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e capi li opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20,25-28).
Il Figlio dell’uomo si spezza, si dona, si consegna, non spezza mai nessuno: si lascia crocifiggere non crocifigge mai nessuno: “Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini” (Benedetto XVI, Omelia di inizio del ministero petrino 24 aprile 2005). I discepoli che perdessero questa visione, carissimi fratelli e sorelle, contraddirebbero se stessi. La logica che Gesù ha consegnato a noi sua Chiesa, è quella della croce. Sì, è scandalo e stoltezza, ma è la nostra vita, è l’orizzonte dentro cui spendersi e consegnare noi stessi. È proprio il rovesciamento della logica di questo mondo a fare “la differenza cristiana”, ma è quello che siamo chiamati a incarnare con uno stile di vita, con dei gesti concreti, in particolare, nei confronti di coloro che non contano nulla, dei senza difesa e delle vittime.
All’intercessione della beata Vergine Maria venerata nella nostra Chiesa come Madonna della Quercia, ai nostri Santi Patroni Pietro e Paolo e a Santa Maria Goretti, affidiamo il nostro cammino discepolare perché risplenda sempre più in dignità, autenticità, responsabilità, bellezza.
Nel rendimento di grazie di Gesù Cristo al Padre che abbiamo appena elevato in questa bella celebrazione eucaristica, vorrei esprimere il mio grazie per tutto quello che ho ricevuto in tanti anni da tanti. In primo luogo grazie a Papa Francesco che ha voluto chiamarmi al ministero episcopale; grazie perché con il suo ministero petrino ci invita incessantemente a lasciarsi plasmare ed inquietare dalla gioia del Vangelo per uscire e con la forza del Vangelo avviare processi.
In ogni matrimonio, lo sappiamo, c’è la mamma che accompagna lo sposo, ed allora vorrei ringraziare la mia mamma Lia, che mi ha generato nella vita, ho ricordato poco fa mio padre Agatino; e poi grazie ai miei fratelli, alle mie cognate, ai miei nipoti, ai miei parenti presenti. Ma mi è dolce e doveroso ringraziare la mamma che mi ha generato nella fede: la Chiesa di Catania! Il mio pensiero grato va a S. E. mons. Gristina non solo per le parole che ha voluto rivolgermi in questa celebrazione, ma soprattutto per la fiducia che in questi anni ha voluto porre nella mia persona, un pensiero grato anche a S. E. mons. Bommarito; tanta, tanta gratitudine va a S. E. mons. Picchinnenna, di venerata memoria, che mi ha cresimato e mi ha ordinato presbitero il 4 luglio del 1987. Dico un sincero grazie anche ai miei formatori del Pontificio Seminario Francese e della Pontificia Università Gregoriana. Un sentito grazie allo Studio teologico S. Paolo nelle persone dei presidi (mons. Consoli, mons. Zito, mons. Aliotta) che si sono succeduti nei miei 30 di insegnamento, ai tanti colleghi e agli studenti; un grande, grande, grande, grazie al Seminario di Catania! Grazie ai seminaristi di oggi, all’equipe formativa del seminario con il nuovo rettore p. Nino Lamanna, il personale e tutti gli amici del Seminario: l’OVS, il Serra Club, l’ICAM. Ma un grazie di cuore a tutto il presbiterio di Catania: cari confratelli presbiteri grazie per la vostra presenza, per il vostro affetto, per la vostra amicizia: voi sapete che in questi anni ho molto insistito su una dimensione imprescindibile della nostra chiamata: essere presbiterio, nella consapevolezza che un presbitero è presbitero insieme ad altri. È una consapevolezza che deve crescere sempre di più! Dico grazie alle Suore Domenicane di San Sisto dove ho vissuto 12 anni indimenticabili; grazie al Meic. E poi non posso non dire: Grazie Adrano! Alle parrocchie: S. Lucia, S. Agostino, S. Pietro e il Rosario, La Chiesa Madre, i Cappuccini, S. Filippo e Giacomo, S. Leonardo. Grazie ai tanti amici presenti fisicamente e quelli che sono presenti in altro modo…
La Sposa è qui, Lamezia Terme, alla quale ho detto il mio sì! Attenzione: il Sì è di Dio, di Gesù Cristo, lo Sposo. In questo grande Sì il mio piccolo sì. L’ho detto a tutte le comunità, le parrocchie, i gruppi, le associazioni e i movimenti, i giovani, gli anziani, le famiglie, a tutti, fedeli e non, cristiani e non, credenti e non credenti, nessuno escluso…di questa porzione di Popolo di Dio che è la Chiesa di Lamezia; ho detto soprattutto il mio sì a voi cari presbiteri, preziosi collaboratori del vescovo ea voi diaconi, a voi religiosi e religiose. A tutti voi dico anche il mio grazie! Alla sposa dico grazie! Penso a tutti quelli che sono presenti, ma anche a coloro che non sono qui! Grazie a S. E. mons. Cantafora, per quanto ha voluto esprimere all’inizio della celebrazione, ma dico grazie a nome di tutti voi per il suo ministero episcopale nei suoi 15 anni al servizio della nostra amata Chiesa Lametina; grazie anche a S. E. mons. Rimedio che è qui con noi. Grazie a S. E. mons. Bertolone ea tutti i fratelli Vescovi delle Chiese sorelle della Calabria, la bella Calabria! (come mi ha detto S. E. mons. Staglianò…). Grazie alle autorità politiche, militari, a tutti i sindaci del nostro territorio.
Grazie ai fratelli vescovi presenti, per il loro affetto e la loro amicizia…, chiedo loro scusa se non li chiamo uno ad uno, ma il pensiero è per ciascuno, anche per coloro che non sono presenti fisicamente, ma sono vicini con la loro preghiera. Vorrei esprimere un grazie particolare alla Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto non solo per gli esercizi spirituali che ho scelto di vivere con loro, accompagnato da P. Alberto Neglia, ma anche per questi anni, quasi 20 di cammino fatto insieme, di crescita spirituale, in una compagnia sempre intelligente, attenta, discreta, umana.
Un grande e sentito grazie di cuore a chi si è adoperato materialmente per la buona riuscita di questa celebrazione. Il coro diretto con grande perizia e professionalità dalla maestra Saladino. Grazie a tutto coloro che hanno dato una mano, a tutti i volontari, a tutti quelli che hanno faticato fisicamente…
Don Alfio Conti, un prete del mio paese di nascita, Adrano, maestro elementare, fine musicista e compositore, scomparso recentemente (23 settembre 2017), in uno dei suoi canti scriveva: “Come un pellegrino, forestiero in questo mondo, ho imparato a fare della Chiesa la mia casa”. La Chiesa, ci ricorda il Concilio Vat. II°, deve sempre misurarsi con la sua indole escatologica, così come ogni cristiano. La Chiesa è la mia, la nostra, casa, con la consapevolezza, però, che non abbiamo quaggiù una dimora stabile per non correre il pericolo di mondanizzarci. È vero che ho dovuto lasciare, e lasciare non è mai facile, tuttavia dove c’è una comunità che guarda come Cristo, che ascolta, che serve, che ringrazia, c’è la Chiesa, la nostra casa! Come Cristo così anche la Chiesa! (cfr. LG 8). Se questa è la Chiesa, permettetemi di esprimermi, con molta semplicità, carissimi fratelli e sorelle della Chiesa che è in Lamezia, non solo mi sento, ma sono a Casa”.