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Il pane ed il pesce: una fiaba noir calabrese

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pane e pesci

Una mamma ed una figlia vivevano solo d’elemosina: una mattina quella mater familias buscò un tozzo di pane ed un pescetto

Tornata a casa, si raccomandò alla figlia, dicendole: «Piccola mia, mettili in dispensa per il momento, perché, se me ne procaccio ancora, quando sarò di ritorno, ce li mangeremo tutti insieme. Non darli a nessuno e stattene qui, senza allontanarti, capito!?».

Promesse da marinai, quelle dei nostri ragazzi, abituati a marinare, dalla legge Casati in avanti: non per tutti, però! Appena si fece vedere da quelle parti San Giuseppe, la pulzella del nostro Sud pensò di fare la brava pastorella: «non ho altro da darvi, Santo mio: ricordatevi soltanto di me e beneditemi, nient’altro più!».

Ad una certa ora si presentò sua madre, tutta immusonita, perché non si era procurata un bel nulla, strada facendo, quel brutto pomeriggio di metà novembre e, quando venne a sapere che non c’era nulla per cui rifocillarsi quella sera, divenne rabbiosa come una cagna; prese un ramo d’ulivo, menandola e maledicendola più che poté. Non paga di tutte quelle bastonate, la scacciò, scaraventandola dall’abitazione, senza dimostrare pietà alcuna: «vatti a sfamare da sola, screanzata: ora, via da qui e per sempre!».

La povera ragazza se ne andò piangendo, non sapendo più cosa fare. Cammina cammina, si ritrovò in un bosco fitto accanto ad un roseto: «uh che belle, queste rose!»: con un po’ di filo di cotone, custodito in una delle sue tasche, ne raccolse a sufficienza, per agghindarsi a mo’ di conforto. Ne uscirono una collana e due braccialetti: meglio di niente! Poi le venne sonno e si addormentò sotto un albero: al risveglio, ‘U santu ciciararu, ricordandosi della sua generosità, provvide a convertire i fiori in preziosi. Quelli, giusto per dircelo, luccicarono così tanto da fare avvicinare un bel Principino, che passava a galoppo, casualmente, non lontano da quelle parti.

L’amore si nutrì del loro sguardo in un batter d’occhi: non ci volle molto per dirsi di sì al sentimento che era immediatamente sgorgato in quel meraviglioso locus amoenus. Il matrimonio non tardò a venire tra balli e feste, che possiamo immaginarci da cliché aristocratico: tra gli invitati, la genitrice della sposa, non poteva non esserci! E quella si presentò con l’arroganza con cui l’aveva lasciata, prima di sbarazzarsene: i toni, sempre gli stessi, con una moltiplicazione di bestemmie da far accapponare la pelle.

La regina di quel Reame, di fronte a quest’impenitente atteggiamento, chiamò quattro soldati, ordinando loro che le tagliassero la testa nel mezzo della piazza. Così la sotterrarono lì stesso: pare che in quel punto sbucò un albero piangente, che ad ogni folata di vento si dimenava talmente tanto da proferire le parole più squallide. Mancu ’a morti avìa addumata, e cchi ffhu:’nu Cìfaru era, Madonna mia!

Prof. Francesco Polopoli

A Marinella Vitale per tutte le lezioni che ci offre di buon’ora, affinché gli studia humanitatis ci restituiscano alla poesia della vita e alla vita della poesia: grazie di cuore!

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