Intervista al vescovo Parisi a due mesi dal suo insediamento
13 min di lettura“Sappiate essere sentinelle che già hanno lo sguardo fisso sulle luci dell’alba”
“Viviamo per un abbraccio ed in un abbraccio, perché l’essenziale della vita è sentirci amati. Abbiamo bisogno, perciò, di riscoprire la fede come relazione: con Dio, con i fratelli, con la nostra realtà calabrese. Una fede incarnata che, oltre i formalismi e il rischio di ridursi a pratiche esteriori, ci renda capaci di discernere la storia per trasformarla. Dovrà essere questa una ‘priorità’ della Chiesa diocesana che vogliamo costruire insieme: ‘esserci’ nelle trame umane della storia come comunità”. Questo uno dei passaggi del messaggio che il Vescovo, monsignor Serafino Parisi, inviò alla Diocesi di Lamezia Terme nel giorno della sua nomina.
Una vera e propria sollecitazione alla Chiesa che è in Lamezia ed a tutta la collettività a camminare insieme e che, il 9 luglio scorso, esattamente due mesi fa, venne accolta dalla comunità lametina che, come in un abbraccio, si strinse attorno al suo nuovo Pastore nel giorno del suo insediamento.
E l’abbraccio è stato il filo conduttore che in questi due mesi ha caratterizzato l’avvio dell’episcopato di monsignor Parisi che, sin dai primi giorni del suo arrivo, non ha mancato di incontrare, parlare, stringere mani, “abbracciare” i tanti lametini che lo hanno incontrato per strada, all’edicola, nel bar, lungo il Corso, nelle varie chiese dove si è recato, sia per le feste parrocchiali che per le comunioni e le cresime.
Momenti durante i quali monsignor Parisi, che contestualmente ha anche incontrato e sta incontrando singolarmente sacerdoti, religiosi e consacrati, ha potuto conoscere il vasto territorio diocesano e le realtà in cui opera la Chiesa lametina. Due mesi intensi, quindi, iniziati con alcuni incontri “ufficiali” come, ad esempio, con le aggregazioni laicali, con i direttori degli Uffici di Pastorale, con i responsabili della Caritas Diocesana, con tutto il clero con cui ha vissuto un momento di confronto e di preghiera comunitari in occasione del primo ritiro svoltosi sotto la sua guida, cui è seguito il ritiro ad hoc con il clero più giovane.
Occasioni che, mentre da un lato hanno permesso alle varie comunità e realtà presenti sul territorio diocesano di confrontarsi con il loro nuovo Pastore, accogliendolo festosamente, dall’altro hanno fatto sì che Mons. Parisi entrasse in contatto con la Chiesa che è in Lamezia, che è stato chiamato a guidare, e rispetto alla quale ha invitato tutti ad essere “corresponsabili”. “Non voglio collaboratori – ha detto il Vescovo in più occasioni – ma persone corresponsabili perché corresponsabilità significa sentirsi parte dello stesso progetto vissuto come missione e come servizio”.
Questo, specie se si considera che, come ha avuto modo di sottolineare in alcuni incontri ed omelie, “siamo tutti battezzati ed in forza di questo battesimo noi costituiamo la comunità dei figli di Dio: siamo la Chiesa”. Ecco perché, “quando noi parliamo della Chiesa, non dobbiamo immaginarla come un qualcosa che è lontano da noi, irraggiungibile, da cui prendere le distanze, una realtà che non mi interessa, che voglio soltanto criticare”. Da qui la sollecitazione ad essere “tenda dell’incontro” e non diventare “come quelle barriere che impediscono agli altri di fare l’ingresso dentro il cuore stesso di Dio”.
Invito, quindi, a diventare compartecipi di un cammino di crescita come, del resto, Mons. Parisi aveva anche sottolineato nella prima intervista ufficiale rilasciata a ‘Lamezia Nuova’ evidenziando che “la costruzione dell’avvenire di questa nostra terra ci appartiene in quanto cristiani, dipende da noi, dipende dalla nostra professionalità, dalla nostra competenza e dalla nostra coerenza. Dipende, insomma, dalle nostre qualità e, direi, dalla qualità della nostra presenza nel mondo, dalle nostre scelte e poi dall’impegno di metterci in gioco totalmente per il bene di questo nostro territorio. Ogni forma di mancato impegno e di mancato coinvolgimento corresponsabile dei cristiani nella cura del presente e nella costruzione dell’avvenire della nostra terra è un modo per lasciare campo libero, escluse lodevoli eccezioni, a chi è più spregiudicato, non necessariamente a chi è più bravo e motivato a costruire il bene comune”.
Mons. Parisi, in questi due mesi, durante i quali ha avuto modo di incontrare varie realtà della Diocesi che idea si è fatta di questa Chiesa che è in Lamezia?
“Devo ammettere in verità che la Chiesa di Lamezia non mi era del tutto sconosciuta. In passato ho avuto modo di approcciarmi in parte a questa realtà esercitando il mio ministero di predicazione tanto a livello diocesano quanto in occasione di diversi incontri tenuti in singole comunità parrocchiali. Si tenga poi in considerazione che come docente di Sacra Scrittura all’Istituto Teologico Calabro per oltre trent’anni ho conosciuto quasi tutti i sacerdoti lametini ed in qualche modo, attraverso di essi, anche i loro territori di provenienza.
Nei due mesi appena trascorsi tuttavia il mio sguardo è stato animato da un’attenzione del tutto nuova, da sentimenti di curiosità e di stupore verso ogni singola realtà che in questo tempo ho avuto il dono di visitare, in modo “ufficiale” e non. La stessa disponibilità con cui mi sono messo in ascolto dei numerosi gruppi finora incontrati dentro e fuori dall’Episcopio. Particolari momenti di grazia sono state poi le numerose visite alle comunità parrocchiali, soprattutto in occasione della celebrazione delle Cresime o delle feste Patronali. Si è trattato di momenti propizi per incontrare comunità vivaci, zelanti, nei grandi come nei più piccoli centri, entusiaste, nonostante le preoccupazioni che il momento storico offre, di incontrare il loro pastore da cui ricevere una parola di incoraggiamento e di speranza. Incoraggiamento che – a dire il vero – accolgo anche io come dono ogni volta che incontro i fedeli, e che mi è di grande sostegno nell’esercizio di un ministero che richiede grande responsabilità
Che idea mi sono fatto, dunque? Di una Chiesa piena di talenti, di opportunità, di risorse umane e – cosa non scontata – anche di numerosi luoghi fruibili, dislocati in lungo e in largo per tutto il territorio della nostra Diocesi. Una comunità – bisogna dirlo – benedetta da numerosi sacerdoti. Un segno, questo, della presenza di un popolo orante e animato da grande fede e per questo ascoltato dal Signore.
L’idea che mi sovviene ancora è quella di una Chiesa che riflette nel cuore del suo popolo quelle qualità di cui in modo particolare gode il territorio geografico su cui insiste. Un territorio – proseguendo con la stessa immagine – rigoglioso, tenace e generoso che spesso tuttavia riserva bellezze ancora nascoste, da valorizzate appieno, o che risentono talvolta di uno sguardo che cede al pessimismo ed al vittimismo e poco spazio concede alla profezia.
Mi sento di aggiungere ancora una cosa. La peculiare centralità che la Piana lametina riveste nel panorama regionale, investe anche la nostra Diocesi della particolare vocazione di essere un crocevia per molte attività ecclesiali che coinvolgono fedeli di tutta la Calabria. Si tratta di una vocazione che mi auguro possa essere sempre più nutrita con l’aiuto generoso di tutti i fedeli lametini, sacerdoti e laici insieme”.
La Chiesa universale, coinvolta nel “processo sinodale”, vive un tempo di particolare riflessione e discernimento. Come può anche la Chiesa lametina cogliere nella sua specifica realtà l’invito a camminare insieme?
“Qualche tempo fa Papa Francesco, prospettando l’ipotesi di un sinodo, fece una importante distinzione tra due spinte, due movimenti che devono essere presenti insieme per favorire un reale cammino di riflessione. Il Papa parlò di un “Sinodo dal basso verso l’alto” che deve andare di pari passo ad un “Sinodo dall’alto verso il basso”. Parto da questa espressione del Pontefice per ricordare che ogni processo che ci coinvolge a livello di comunità – particolare o universale – per essere credibile ed efficace deve sempre partire da una “conversione” che inizi anzitutto dal basso, ovvero che parta da ciascuno di noi. Riprendendo i temi guida offerti per questo Sinodo anche noi come Chiesa particolare siamo chiamati a riflettere su quale valore abbiano per noi le parole di comunione, partecipazione e missione.
Siamo capaci di comunione? Nelle nostre comunità – parrocchiali e diocesana – siamo invitati a riscoprire con serietà che vivere la comunione non vuol dire solo condividere degli spazi o delle attività, ma piuttosto riscoprirci tutti destinatari e depositari dell’amore di Dio, sostenuti dall’ascolto della sua Parola e accompagnati dalla Tradizione della sua Chiesa. Distrugge ogni sforzo nella costruzione della vera comunione l’illusione di poter fare da soli e meglio senza gli altri.
Siamo capaci di partecipazione? Essere “protagonisti” della vita ecclesiale non è solo per alcuni, non è soltanto di chi ha ricevuto una vocazione particolare o esercita il ministero ordinato. La partecipazione ci stimola a riflettere sul fatto che ciascuno di noi, come battezzato, riceve dei doni dallo Spirito Santo; doni che – proprio come i talenti della parabola – non sono dati per essere sotterrati, ma perché ci permettano di servirci l’un l’altro con amore. Discernere la volontà di Dio sulla sua Chiesa – da quella particolare a quella universale – necessita dunque dell’apporto di tutti, nessuno escluso. È in questa linea che, parlando al clero nel primo ritiro, ho sottolineato il mio desiderio di poter contare non semplicemente su collaboratori, ma su corresponsabili che si sentano cioè parte dello stesso progetto vissuto come missione e come servizio, pronti a condividere le gioie ma anche a portare gli uni i pesi degli altri.
Siamo capaci di missione? “Chi non ama non ha conosciuto Dio” (1Gv 4,8), afferma Giovanni nella sua Prima Lettera. Più di ogni altra cosa, di qualsiasi piano o progetto pastorale, di qualunque iniziativa per quanto lodevole, a determinare la credibilità della nostra fede è la capacità di testimoniare l’amore di Dio, e di farlo ovunque. Amare così come il Signore ci insegna vuol dire compiere la prima e più importante missione, quella che anche dal nostro piccolo contesto in cui siamo chiamati a vivere la nostra fede, ci porta lontani, inseriti in una rete di amore gratuito e rivoluzionario. Anche per la nostra Chiesa particolare allora, il compito è quello di non smettere mai di interrogarsi su come testimoniare meglio il Vangelo a partire dalle “periferie” che la caratterizzano, per poter adempiere quotidianamente alla missione che Dio le ha affidato”.
Il Vescovo è pastore e padre di tutti i fedeli, ma ha nei suoi sacerdoti i primi e più stretti “corresponsabili” della missione pastorale, come lei stesso ha avuto modo di sottolineare loro. Qual è il suo desiderio di Pastore sul clero lametino e come intende realizzarlo?
“La nostra Diocesi può dirsi fortunata di avere un clero che conta non solo numerosi sacerdoti, ma molti sacerdoti giovani il che, visto il trend vocazionale italiano, non è affatto scontato. E questo è un dono per cui mi sento di dover benedire – e per cui invito ognuno a benedire – il Signore: poter contare sull’aiuto di tanti sacerdoti e sulle risorse che ognuno di loro, in modo diverso e peculiare, quotidianamente mette con generosità al servizio del popolo loro affidato. Testimonianze – posso attestarlo – di dedizione sincera e fedele, di disponibilità a farsi presenza affettuosa e consolante di Dio, fonte di edificazione per tutto il popolo e motivo di incoraggiamento anche per i confratelli più giovani.
Come avviene ancora in modo particolare nel Sud Italia rispetto ad altri territori, anche nella nostra Diocesi i sacerdoti sono guide spirituali e morali ai quali si guarda ancora come a punti di riferimento, come a lievito che – soprattutto in alcuni contesti – può fare la differenza nel contribuire alla piena maturazione anche della vita sociale della realtà in cui operano. È quanto io stesso ho potuto toccare con mano in molte delle comunità finora visitate. Si consideri che ad oggi ho visitato circa 30 comunità (chiese/santuari/parrocchie) e ho visto personalmente, in udienze a loro espressamente dedicate, più di 70 sacerdoti e religiosi su un totale di 107, senza contare quelli che ho incontrato nelle singole parrocchie.
Tornando alla missione, dico che è avvincente, anche se richiede maturità e consapevolezza circa le responsabilità verso fedeli e pretende di rifuggire qualsiasi testimonianza tiepida nell’esercizio del proprio ministero. È quanto lo stesso Papa Francesco intende dire quando ci ricorda che “la nostra non è una professione ma una donazione”. Se dovessi esprimere dunque un desiderio per tutti i miei sacerdoti, augurerei loro – e per loro chiedo al Signore – di puntare sempre in alto, al modello che Cristo ci offre, faticoso ma bello, e di evitare ogni mediocrità, di vivere quotidianamente la loro donazione con fedeltà e gioia, anche nei momenti di scoraggiamento, ricordando la sublime missione di essere vasi di creta sì, ma dal contenuto prezioso. Allo stesso tempo fa parte del mio desiderio di Pastore, una sempre maggiore prova tra i sacerdoti di stima e di affetto reciproci, nella certezza che questa costituisca la forma di testimonianza più vera ed efficace per annunciare anche l’amore di Dio agli altri. Ho già parlato di ciò come di una “profezia” attesa dal mondo. Come farlo? Siamo limitati, è un dato assodato, ma sappiamo pure che, se Cristo è la bussola della nostra vita e del nostro ministero, la strada, nonostante le diversità personali, sarà comune e da percorrere insieme, fuori da ogni forma di potere o autogratificazione che generano divisioni ed indeboliscono la stessa missione ecclesiale.
Parafrasando il Concilio Vaticano II, Papa Francesco ha affermato qualche tempo fa: “Non esiste Vescovo senza il suo presbiterio e a sua volta non esiste presbiterio senza un rapporto sano col il suo Vescovo”. Di questo sono ben consapevole, che il nostro obiettivo comune deve essere quello di sentirci una sola famiglia di cui il vescovo è padre e fratello. Condividendo ancora una volta l’espressione del Papa che definisce i sacerdoti “il prossimo più prossimo” al Vescovo, sento dunque la necessità e la responsabilità di fare del mio stesso ministero episcopale la prima forma di vicinanza a tutti i miei sacerdoti, cercando di stare in mezzo a loro come colui che è il primo a servire nell’amore (per caritatem servite invicem). Ho iniziato a farlo fin da subito mediante l’ascolto che, particolarmente in questa fase del mio ministero, reputo essenziale anche per conoscere maggiormente ognuno di loro, e così ho intenzione di continuare a fare nella consapevolezza che tale rapporto costituisca la spina dorsale su cui si regge l’intera comunità diocesana. Sappiano, dunque – come ho già avuto modo di dire in particolare durante il ritiro al clero più giovane – di poter trovare in me un padre e una guida che ha fiducia in loro e che nessun altro interesse ha al di fuori del loro bene e del bene dell’intera comunità diocesana”.
Ci apprestiamo all’avvio del nuovo anno pastorale che, si spera, possa essere vissuto con una maggiore serenità dopo questi due anni di pandemia. Nelle varie parrocchie fervono già i preparativi per l’avvio delle attività. Cosa si sente di dire alla sua Chiesa per questa ripresa di un cammino che di fatto, non si è mai interrotto ma che, in un certo senso, è stato molto rallentato?
“Quello che viviamo è certamente un momento storico in cui i legami sociali ed affettivi sono messi a dura prova. Chi può dimenticare il senso di smarrimento e di tristezza provati nel renderci conto che all’improvviso eravamo stati privati dei gesti più semplici e spontanei che – seppure spesso dati per scontati – riempivano di senso la nostra vita quotidiana? Non è un caso che il mio primo messaggio alla Diocesi si sia sviluppato nel solco di un unico grande “abbraccio” a tutta la comunità. Nonostante le difficoltà, tuttavia, il cammino non si è mai interrotto anche grazie alla tenace volontà di tanti sacerdoti e operatori pastorali che in ogni stagione di questa lunga pandemia hanno cercato di farsi presenti per come di volta in volta ciò si rendeva possibile. Nonostante gli strascichi che ancora ci portiamo dietro, è fondamentale dunque guardare avanti ricordando con Papa Francesco che “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. Ed è vero, soprattutto se guardiamo ad essa come l’emblema delle difficoltà e cadute di cui è costellata la nostra esistenza. Che spreco sarebbe doversi limitare a subirle col desiderio di dimenticarle il prima possibile ed insieme il rischio di ricaderci presto. Il faticoso torpore dal quale a fatica ci stiamo risvegliando dopo mesi di forzato riadattamento delle nostre abitudini sociali e comunitarie, ci chiede di rendere anche la fatica un “memoriale”, perché essa da un semplice incidente di percorso passi ad essere una opportunità di crescita, di ritorno all’essenzialità e di discernimento, non escludendo una seria riflessione sulla nostra stessa esperienza di fede. Per farlo, penso sia necessario nella vita imparare a nutrire uno sguardo che vada sempre oltre, anche al di là degli imprevisti più drammatici ed incisivi come quelli di una pandemia. È quanto la nostra fede ci invita a fare lasciandoci scorgere oltre il dolore della croce lo stupore sempre nuovo della resurrezione. Ecco cosa mi sento di dire alla nostra Chiesa lametina, ad ogni parrocchia che si prepara con entusiasmo e magari ancora con qualche difficoltà al riavvio delle attività, ad ogni sacerdote, religioso/a e fedele laico che con dedizione e buona volontà si affaccia al nuovo anno pastorale che inizia: sappiate essere sentinelle che, mentre ancora si sentono avvolte dagli ultimi residui della notte, già hanno lo sguardo fisso sulle luci dell’alba. Abbiate uno sguardo profetico e propositivo su tutto quello che vi circonda, senza cedere allo scoraggiamento ed al pessimismo cronico, per essere voi stessi il primo contributo al cambiamento! Io stesso, dopo questi primi due mesi che sono stati e continuano ad essere occasione propizia di conoscenza della nostra Diocesi, sento e nutro un cuore, una mente ed uno sguardo proiettati in avanti. È lo sguardo del Vescovo a richiederlo, chiamato alla responsabilità di essere la prima fra le sentinelle e alla gioiosa fatica di scorgere in anticipo, con responsabile lungimiranza, i colori dell’aurora”.
Intervista a cura di Saveria Maria Gigliotti