Kento al Festival Trame. Rap, sogni e segreti in un carcere minorile
5 min di letturaIl rapper Kento, nato a Reggio Calabria, cresce negli anni delle guerre di ‘ndrangheta, “quelli dei morti ammazzati per strada, quelli dei compagni di scuola spariti perché dovevano scappare con le famiglie”
Il rap lo ha aiutato in molti modi: innanzitutto a distaccarsi da questa realtà, poi a narrarla e farne la chiave interpretativa delle sue esperienze. Per lui il rapporto con il territorio è fondamentale: in Calabria c’è “tutto il bruttissimo e tutto il bellissimo”, è una terra di estremi forti, stretti in un rapporto complicato e che non è possibile ignorare.
Non è un paradiso ma non è neanche una terra condannata: Francesco non semplifica la realtà, la vuole capire e far capire. Questo aspetto del suo carattere lo accompagna anche in carcere e nei suoi laboratori. Kento, descrive Monica Zapelli, è un insegnante che spiazza, il suo è un misto di didattica e umanità che gli permette di entrare a stretto contatto con i ragazzi, di creare un rapporto di fiducia. Kento vuole sapere davvero dei suoi ragazzi, del loro vissuto e dei loro sentimenti. In un contesto di privazione della libertà, chiede loro di parlare, attraverso barre “materiali e musicali”, delle proprie emozioni.
“Senza musica non c’è cambiamento sociale”: così Francesco Carlo, in arte Kento, spiega quella che per lui è l’importanza della musica.
L’hip hop e il rap sono il linguaggio di tutti, non solo dei giovani, influenzano la nostra vita quotidiana, l’arte, il cinema, il modo di vestire. Sono le forme musicali che meglio raccontano la realtà e che tutti conoscono. Quando entra in carcere tutti i ragazzi sanno cosa sia “una barra”, se non ascoltano rap tutti sanno cosa sia, se non lo ascoltano abitualmente hanno piacere di scoprirlo.
Per questo motivo Kento sceglie il rap come medium per interagire coi ragazzi cui rivolge i suoi laboratori nei carceri minorili sparsi per l’Italia.
Scrivendo musica, i ragazzi hanno la possibilità di tirare fuori ciò che hanno dentro, talvolta di scoprirlo indagandosi per la prima volta e stando per la prima volta “dall’altra parte del microfono”, quella di chi parla e si fa sentire. Scrivendo, rappando, possono comunicare agli altri quello che pensano, farsi ascoltare anzichè subire quanto gli viene detto in una realtà quale quella del carcere, dove “devono chiedere per favore” il riconoscimento dei loro diritti.
Barre racconta questo: una realtà di rabbia e frustrazione dove il senso di impotenza spinge spesso all’autolesionismo finanche al suicidio. Si racconta il sistema su cui si fonda l’incarcerazione minorile, dove i circa quattrocento minori chiusi nelle carceri italiane vengono dalle fila degli ultimi per condizione economica, sociale, culturale. Kento descrive ragazzi spesso illetterati, di recidivi che non avendo trovato migliori possibilità fuori dalle sbarre scelgono di tornarci. Ragazzi che hanno tanto da raccontare e che se stimolati sanno fare tesoro delle loro esperienze, districando quel gomitolo di emozioni e sensazioni in cui si trovano aggrovigliati e che sono l’anima del rap.
Secondo Kento a finire in carcere sono gli ultimi, non necessariamente soltanto chi lo merita. Il carcere minorile è l’ultima spiaggia, esistono numerose misure alternative alla detenzione: chi finisce in carcere, dice il rapper, è chi non ha i genitori, chi non può pagarsi un avvocato, chi fa lo sbruffone davanti al giudice, chi non parla bene l’italiano.
Non si finisce “nell’imbuto” per demerito ma spesso per mancanza di possibilità. In carcere, secondo Kento, più che in altri luoghi si vede il classismo: è il luogo del potere debole, quello che ha bisogno di ipertrofia normativa per garantire l’ordine.
I ragazzi che vivono dentro contesti criminali sono doppiamente vittime, non hanno potuto scegliere il proprio destino e sono respinti da quel “mondo dei giusti”che li giudica e li classifica senza appello, come nota anche Zapelli. è questa dichiarazione di fronte alla videocamera di chi girava un documentario sul tema che una decina di anni fa, quando per la prima volta Kento è chiamato per proporre un laboratorio in un Istituto Penitenziario Minorile di Roma, lo mette nei guai. è chiamato a ritrattare dal direttore del carcere, che di fronte a un rifiuto blocca il laboratorio.
Di questa punizione per la sua coerenza, in realtà sono i ragazzi a pagare il prezzo. Qui Kento realizza che la sua sarà un’impresa complessa per quanto moralmente giusta, in un sistema non sempre corretto che racconta nel suo libro. Un libro che pensava di non poter scrivere, per delicatezza, per rispetto nei confronti dei giovani detenuti ma che ha sentito fosse necessario mettere su carta perché queste storie non potevano continuare a vivere nell’oblio.
Tutto questo serve? Kento sostiene di sì, “eccome se serve”. Si tiene in contatto coi ragazzi che hanno scontato la loro pena e sono tornati a vivere fuori dalle sbarre: c’è chi ha spiccato nel rap, chi studia per diventare avvocato ma soprattutto c’è chi sta nel mezzo, chi prima del carcere non aveva nulla ma indagando tra le strofe ha conosciuto se stesso e riscoperto la speranza, la possibilità. La possibilità di una normalità che non ha mai avuto, di sposare la donna che ama, di essere un buon padre, quel sogno semplice che quasi tutti i suoi “ragazzacci” condividono, ben lontani dal mondo criminale.
Nel libro lancia l’importante messaggio di non restare passivi, di informarsi sulla realtà carceraria minorile che, si augura il rapper, un giorno desterà incredulità al pari di quanta oggi ce ne provoca pensare ai manicomi o ai matrimoni riparatori.
Francesco “Kento” Carlo è un rapper, attivista e scrittore di Reggio Calabria.
Musicista affermato, dal 2009 conduce numerosi progetti nelle diverse carceri minorili italiane, scuole e comunità di recupero, conducendo laboratori di scrittura musicale.
Ha vinto il premio Cultura Contro le Mafie nel 2014, mentre nel 2017 è stato premiato da Casa Memoria Impastato e ANPI.