La cura provvisoria dei tratti fragili. Appunti per una lettura
4 min read“Di una cosa sono convinto – scriveva Kafka – un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi.”
La cura provvisoria dei tratti fragili di Tiziana Calabrò ed Eleonora Scrivo (Città del Sole Edizioni) arriva, invece, lucente e pungente come uno stiletto. E la cura provvisoria del titolo diventa cura permanente dei dettagli, dei personaggi, delle atmosfere per un genere letterario, quello del racconto, in cui si lavora per sintesi, sottrazione e suggestione in una struttura a geometria costante che impone alla storia un respiro narrativo breve e conchiuso laddove i personaggi sono tratteggiati per sineddoche.
Sineddoche, figura retorica usata qui come nome della parte per il tutto e che ben esplicita il lavorìo di sottrazione per una scrittura a due mani elevate al quadrato.
Due donne di sensibilità e talento, Tiziana ed Eleonora.
26 racconti che, pur succedendosi su una linea mutevole di variazioni, conferiscono al libro una compattezza intrinseca.
Alcuni di essi sono costruiti con tecnica quasi cinematografica che si sofferma sul particolare: il cardigan di Alida e gli occhi di uccello notturno di Monica, i tic di Sandro e la scapola di Gemma, una treccia di capelli, i battiti lenti di un cuore straziato, due polpacci poderosi… Frammenti ed eventi del reale che vengono ritagliati a comporre figure di senso che ne trascendano la frammentazione e frammenti di vita-in-morte come i pezzi di quel corpo che, con lacerante incredulità, trova ancora il coraggio di parlare d’amore.
Poi ci sono i luoghi, i luoghi di lavoro e di intimità domestica, di sofferenza e di attesa. E le città, che rispondono a precise coordinate antropogeografiche di cui conosciamo o riconosciamo, i quartieri, le piazze, le strade, i vicoli, le case e dove i personaggi fanno corpo col paesaggio. E ancora paesi sospesi in una dimensione magica e tragica insieme.
C’è la natura selvaggia di una montagna d’Abbruzzo che a sostituire le pecore con le capre potrebbe essere il nostro Aspromonte perché le montagne sono fatte di terra e ci aiutano a guardare lontano e poi c’è il Mare Nostrum, quel mare che consola e consuma dove anche gli dei hanno nostalgia di umanità e giustizia.
Ci sono le cose come correlativi oggettivi di emozioni: quel frutto della terra rosso sangue che nel suo colore condensa il sacrificio e la fatica prefigurando nella polpa succulenta la gioia di ritrovarsi. E gli echi di Eliot li ritroveremo anche in quell’aprile che è il più crudele dei mesi nel racconto “Troppo mare consuma”. E ancora le biglie colorate ad evocare la caduta, ché la caduta è scritta nel codice genetico e nel destino di ogni creatura. Ma c’è anche la rinascita figurata in quella piccola, eburnea conchiglia.
C’è l’immigrazione raccontata con dolcezza dolente e l’integrazione che affida alle parole astratte e visionarie del poeta rumeno Nichita Stănescu il bisogno di preservare la propria identità, la necessità di non smarrire le radici.
C’è l’amore in tutte le sue declinazioni, l’amicizia perduta, la malattia che destruttura la vita annullando la percezione di sé e degli altri filtrata attraverso il candore di uno sguardo infantile, il dolore che imprigiona e purifica, il silenzio come desiderio di spazio individuale, la morte naturale o violenta e l’impossibilità di recidere i legami.
Ci sono gli uomini. Fatui e feroci, instabili e irrisolti, difettati nel corpo o nella psiche i quali, nella loro affettività desertificata, hanno bisogno – sempre e comunque – di aggrapparsi alle donne, siano esse madri, mogli, amanti o amiche.
Ci sono le donne come dono amore sorriso casa destino senso e compiutezza.
Ma anche donne che perdono, che devono perdere per ritrovare se stesse, rassicurate nella loro solitudine.
Tutto è celebrato con misura, con controllo di scansioni e di simmetrie in una commistione di registri linguistici alti e bassi in cui si innestano dialoghi che attingono direttamente all’alfabeto umano della quotidianità con punte di humour dissimulato o durezza dissonante.
Sono voci urlate o sussurrate, talvolta pianto o ancora silenzi brevemente interrotti.
Queste storie non consentono consolazione, parlano in privato, richiedono complicità, empatia e compassione – nel senso etimologico di partecipazione alla sofferenza dell’altro. Sono storie che ci appartengono e chiedono qualcosa a ciascuno di noi: rintracciare il senso delle nostre esistenze senza cercare, indarno, di celarne la pena.
Giovanna Villella