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La gazza ladra

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gazza ladra

Tiro fuori dalla cassapanca un terzo mio lavoro dattiloscritto, unito alla riflessione di come la scrittura amanuense d’allora facesse “rumore” sotto l’orchestra di un’Olivetti. Età umanistica, quella, perché dell’uomo conservava traccia mnestica dei suoi limiti nei refusi sparsi e spersi di qua e di là a memento dei suoi limiti. Oggi siamo andati oltre, disumanizzandoci…Cesca, figlia unica di un re e di una regina della nostra splendida Calabria, passava il tempo a comporsi per benino, ogni mattina, davanti allo specchio della sua cameretta.

Un giorno, di buon’ora, lasciò la forcina sul davanzale della finestra, quand’ecco sopraggiungere ’na carcarazza, avvicinarvisi e sparire tre metri sopra il cielo con la fermatura dei suoi capelli. Le capitò la medesima cosa con un agoraio colmo di aghi ed un anello sia l’indomani che posdomani.

La ragazza, rimasta senza le sue cose, si disperò a tal punto da farne una malattia e non ci fu medico a convincerla di levarsi dalla testa gli oggetti miseramente perduti per il brutto becco di un impenitente uccellaccio.

Senonché una vecchina, nel seguire la scena in volo, incuriosita, decise di incamminarsi, per scoprirne un po’ di più: forte fu il suo stupore, nel mezzo di un bosco, nello scoprire che, dietro a tutta quella faccenda, ci stava un furto specialissimo, tra le altre cose, regale e degno della sua principessa: dalle piume, lontano dallo sguardo indiscreto di tutti, prendeva, infatti, forma un principe abbastanza caruccio, la cui beltà era accompagnata dalla riverenza abbassata della chioma di tutti gli alberi ivi circostanti.

Si risurvìu, allora, di affrettare i passi il più possibile e di riferire la notizia ai propri regnanti: la piccola reginotta sentì balzare il cuore dall’emozione di quella veritiera testimonianza e con il permesso dei genitori s’inoltrò per il sentiero, guidata dall’anziana signora.

Lì vide riprodurre esattamente quanto raccontato in presenza dei propri familiari.

«Ti ringrazio dell’onore che mi rendi, e ti dò volentieri il mio cuore; ma se vuoi che io diventi in carne ed ossa, per tutto il giorno, spogliandomi di queste ali, definitivamente, dovrai restare chiusa dentro questo spazio per un anno, un mese ed un giorno»: spezzò subito il ghiaccio, proponendole una soluzione, avendo sentore del sentimento che si annunciava straripante, in quell’esplosione di natura, da entrambe le parti. E lei non si tirò indietro, assolutamente!

Amarezza la colse quando alla scadenza del tempo concordato, lui venne lì per assumere le sembianze umane una volta per tutte: lei, trascurata, smagrita, in un luogo così inselvatichito, da non permettere le cure e le attenzioni meritate. Beh, detto fatto, la piantò in asso malgrado lo straordinario spirito di abnegazione dimostratogli e lei, in preda alla disperazione, se ne andò fuggitiva e raminga per il mondo. Dopo miglia e miglia di cammino San Giuseppe le venne incontro: vedendo quel bel vecchietto, con la sua barba bianca che ispirava fiducia, gli raccontò tutta la sua storia e le ambasce che dilaniavano le sue viscere.

«’Un ti disperari troppu, ca a tuttu c’è rimediu» e, con queste parole, la fece diventare più bella del sole. Quando il buon falegname faceva da estetista, scherzo, questa è solo un’abusiva interpolazione, la mia! A dire il vero, accompagnò il suo discorso con una verga, ma non per bacchettarla: non avrebbe potuto, era un Santo, benché sappia che il nostro Vecchierello di Paola non poche volte, persino nei sogni, abbia dato qualche legnata, ma soprassediamo su questo! Quella era una bacchetta magica con cui materializzare ogni suo desiderio: opera di un re magio? Non lo sapremmo mai. Natale è ancora lontano.

La principessa Cesca, a quel punto, fece comparire un palazzo così bello davanti al suo ex-pretendente, che ognuno fu preso dalla curiosità di conoscere la signora di casa, la sua proprietaria, cioè! Il giovane rampollo, per dovere di accoglienza, le fece recapitare uno straccio dorato come segno di buon vicinato. E lei, vi chiederete!?

Lo accolse per farci pulire una padella della sua cucina: che affronto! Lui insistette il giorno dopo con una manciata di pietre preziose, che lei, in presenza della servetta, con cui gliele mandò, bollò come chincaglieria, gettandole come chicchi di grano alla chioccia e ai pulcini del suo cortile.

Lui non si arrese di fronte a quest’ennesima sgarbataggine: tolse la corona dal suo capo, per fargliela avere in atteggiamento di pace, come ultima possibilità.

«Chista ma tìagnu cumu trippìadi ppi cci mintirì ancuna cosa ’i supra»: il disprezzo raggiunse il diapason ed il principe non poté fare a meno, a quel punto, di incontrarla di persona, prima di configgere con il suo regno e coinvolgere le sue guardie reali.

Ci pensò un piccione viaggiatore ad avvisarla che si sarebbe mosso verso di lei e con due soli fiduciari a tutela della sua persona: quel giorno lo smarrimento fu totale nel riconoscere, dal vivo, la donna che lui stesso aveva abbandonato non molti anni prima. Le spiegò che gli era servito parecchio tempo per ricomporre la sua persona, smarrita nell’incubo di quella doppia forma, che s’era cucito addosso costantemente, anche quando, grazie a lei, aveva ricomposto la sua unità.

Tuttavia, conscio dell’ingratitudine, le chiese un piccolo briciolo d’amore, ché di quello si sarebbe nutrito. Proprio questo si avverò in un batter d’occhi e, come sentenzia il nostro Dante, poca favilla gran fiamma seconda.

Cupido, insomma, fece il suo dovere, sparando frecce senza proiettili supra sti dua bìalli picciunìalli che, accussì, vissero filici e cuntìanti per tutti i giorni della loro esistenza nella terra più bella di tutte, che è la nostra Calabria, anima narrante nel coro di tanti suoi aedi.

Prof. Francesco Polopoli

Ad Aldina Mastroianni, i cui stimoli arricchiscono quei piccoli sforzi di restituzione che amo compiere per la mia Comunità.

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