La guerra dei Roses: né con te né senza di te
4 min di letturaLa guerra dei Rose di Warren Adler: un romanzo, un film di successo con Michael Douglas e Kathleen Turner ed ora uno spettacolo teatrale magistralmente interpretato da Ambra Angiolini e Matteo Cremon per la regia di Filippo Dini.
Lo spettacolo è andato in scena al Teatro Comunale di Catanzaro nell’ambito della Stagione teatrale 2018.2019 organizzata dall’Associazione culturale AMA Calabria.
E nel teatro, il testo – tradotto da A. Brancati e E. Luttmann – diventa riscrittura giocata sul palcoscenico mentre la straordinaria tenuta del linguaggio teatrale rivela le sue connessioni con la contemporaneità (vedi le voci fuori campo dei due assistenti/maggiordomi “digitali” Alexa per lui e Donald per lei).
L’apparato scenografico si sviluppa su due piani che sono tanto reali quanto metafisici: dal piano dell’ordine a quello della distruzione e del caos.
La scena è ampia, quasi nuda, lignea, con fughe prospettiche a dare un senso di profondità. Scarsi gli oggetti: un tavolo, due sedie e un enorme lampadario di cristallo che pende dal soffitto. I toni sono quelli tetri del grigio a suggerire vaghe atmosfere drammatiche. Un allestimento che sembra voler riprodurre, a livello materiale, quel contrasto tra “dentro” e “fuori”, tra solitudine e socialità, tra staticità e cambiamento risolvendo il rapporto con l’esterno attraverso una porta a vetri da cui si intravvede un giardino e collocando gli studi dei due avvocati sul front stage. La permanenza dei personaggi, per la maggior parte del tempo, nel luogo chiuso dell’abitazione diventa un preannuncio latente di quel cupio dissolvi che solo nel finale giunge a manifestarsi in modo concreto e perentorio con la catastrofe che disintegra la scenografia facendola crollare come un castello di carte. La morte dei due protagonisti, sepolti sotto il lampadario di cristallo, suggerisce che lo sfascio del microcosmo familiare dei Roses rimanda in qualche modo a quello del macrocosmo storico-sociale.
Il luogo psicologico che sta al centro dello spettacolo è quello di un mondo borghese che ha nelle pratiche salottiere e in quelle politico-lobbistiche la sua bandiera anche se in filigrana fa scorgere l’inizio di una bella storia con i protagonisti che, abbattendo la quarta parete, scendono in platea a rivivere le loro schermaglie amorose. Ma è solo una nota rosa in un noir attraversato da sarcastico humor e guizzi di comicità in agrodolce.
Il marito ha l’orgoglio del self-made man, la moglie rivendica il fatto di essere stata lei l’artefice del successo di lui. Coppia in conflitto permanente. Personaggi sempre sull’orlo di un abisso, naturali e sconvolgenti, passionali e indifesi, miti e violenti, inequivocabilmente soli in una casa-prigione, avviluppati in una ridda verbale esasperante con annesso corollario di provocazioni e ripicche dove tutto diventa difficile da sopportare, lacerante, penoso, intimamente teso alla distruzione di chi lo vive.
Ambra Angiolini, con eleganza e civetteria, è bravissima a caricare di intelligente cattiveria venata di sapida ironia il personaggio della moglie Barbara, in trappola, stanca di un passato che la imprigiona e desiderosa di un futuro tutto suo.
Caparbio e volitivo il Jonathan di Matteo Cremon con toni e movimenti persuasivi che mutano repentinamente alternando un parlato isterico ad uno quasi convincente.
Vittime e carnefici al tempo stesso fissano il loro gioco al massacro nella ripetitività del ménage coniugale. E il gioco al massacro, iniziato con le prime battute e i primi dispetti, diventa via via una sorta di omicidio psichico, si srotola di minuto in minuto dipanando il filo di due vite ormai parallele ma intimamente indivisibili fino alla morte e oltre quando l’azione si sposta in uno spazio scenico rarefatto, un girone infernale illuminato da tagli di luce vermiglia che è fuoco e sangue e tutto intorno macerie dove Barbara e Jonathan, che macerie erano fin dalla loro entrata in scena, si aggirano come spettri increduli.
Personaggi speculari ai due protagonisti i loro avvocati interpretati dalla proteiforme Emanuela Guaiana e dall’ottimo Massimo Cagnina, attori di notevole, personalissimo rilievo.
L’attenta regia di Filippo Dini, la macchina scenica a firma di Laura Benzi, i costumi di Alessandro Lai, le luci di Pasquale Mari e le musiche di Arturo Annecchino riverberano di senso pieno e compiuto personaggi e gesti.
Applausi lungi e meritatissimi.
Giovanna Villella