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Lamezia. L’associazione Dorian e la vendemmia dei tempi andati

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Lamezia. L'associazione Dorian e la vendemmia dei tempi andati

Ho sempre ascoltato, fin da bambino, svariati racconti che avevano come protagonista non un eroe impeccabile, che nulla teme e tutto può, e neanche storie su lontane epoche magiche con draghi volanti o altre creature, no, nulla di tutto questo

Le storie che da bambino ero solito ascoltare erano ben diverse, si riferivano a tempi e luoghi più vicini, vissuti dai miei nonni, dai miei genitori: non parliamo, dunque, di tempi remoti ma periodi dai quali, adesso, ci distanziano cinquanta, sessanta anni e che, nel momento in cui recepivo per la prime volta quelle parole, erano stati vissuti da ancor meno.

Nell’immensa tela che la storia dipinge, già un secolo rappresenta appena un minuscolo tratto, figuriamoci cosa possono esser pochi decenni!

Eppure mai come negli anni ai quali mi riferisco il tempo ha completamente stravolto qualunque cosa ci circondi.

Questo incredibile mutamento (positivo o negativo che sia, non voglio avventurarmi in pruriginosi giudizi) ha fatto sì che tutti i racconti delle persone più adulte emergano in me come un sogno lontano, come qualcosa di irreale: come una bruma onirica che opacizza i ricordi conferendo loro i tratti sfumati dell’acquerello.

Si fa decisamente fatica, oramai, a concepire strade terrose percorse solamente da pochi animali, è vero: ma – pensiamoci bene – è difficile, difatti, persino immaginare bambini giocare a calcio in mezzo la strada, con porte arrangiate alla meno peggio, con le misera scarpe – comprate al mercato rionale del martedì, per meno di diecimila lire – già rotte: le suole, infatti, erano lestissime a staccarsi, dando a quelle piccole calzature in tela colorata la parvenza in un grosso pesce esotico abitatore dei mari tropicali con la bocca aperta, in attesa di ingurgitare sabbia e piccoli crostacei (non ho intenzione di divagarmi in disquisizioni sui jeans rattoppati, visto che ora vanno di moda gli strappi).

Le cose di sole trent’anni fa sembrano incredibili!

Le strade del paese da naturale punto di riferimento, dove si riversavano rumorose folle di bambini, giovinetti e adulti ritornati dal lavoro, o animate dalle donne sedute su una sedia pieghevole in legno di fronte la porta di casa, sembrano solo illustrazioni di un libro su usi e costumi lontani.

Come potrei ora immaginare la vendemmia?

Sì, potrei andare in un’azienda enogastronomica, in un vigneto, a sperimentare i metodi (l’oggi detto know-how), a vedere le capacità dei viticoltori, ma avrebbe tutto la sterile sensazione di star spaginando un libro di educazione tecnica, di aver di fronte non un sapere antico tramandato di generazione in generazione, con precisi segreti da tenere occultati a tutto il vicinato, ma una conoscenza nozionistica, un sapere di tipo manualistico.

Ho ascoltato da sempre, invece, racconti di profumi immensi, di un paese che, prima di estirpare i vigneti per far posto alla coltura delle olive (più produttiva e meno dispendiosa), era apice di una produzione vinicola regionale.

Allora immagino, e nella mente i colori sono vividissimi pur senza averli mai vissuti, gli asini che portavano sulla groppa pesanti carichi di violacei grappoli di gaglioppo, penso ai torchi, ai fiaschi, alle damigiane da sciacquare, penso alle carrette che seguivano il tortuoso percorso delle vie in discesa del centro storico, ai rigoletti che divenivano rossastri scendendo verso la piazza e recavano con sé il profumo di mosto.

Ora ricerchiamo l’etichetta migliore, un tempo venivano ricercati piedi agili e veloci, per danzare ritmicamente su acini di magliocco color rubino, piedi allegri per ballare e spremere e far schizzare da quei paonazzi chicchi una gioia, una tradizione, una vita che – anche se in quel momento non sembrava – era destinata a non ripetersi più, era destinata a essere l’ultima prova di una genuinità che l’imbarbarimento dell’evoluzione, che la spersonalizzazione del mondo digitale avrebbero contribuito a corrompere per sempre.

Giovanni Mazzei 

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