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Lamezia. Liceo Classico Fiorentino: una classe si fa laboratorio multidialettale

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Il dialetto, patrimonio di cultura e saggezza di un ambito territoriale, va a costituire l’identità sociale di una comunità: oltre al valore soggettivo e identitario che assume per ogni persona, il vernacolo squaderna storia, usi e valori di quanti lo parlano.

«Il dialetto è come i nostri sogni – sosteneva Fellini – qualcosa di remoto e di rivelatore, la testimonianza più viva della nostra storia, l’espressione della fantasia».

«In esso è scritto chi fummo, chi siamo, chi saremo. Una traccia di storia e di costume per interpretare caratteri e comportamenti altrimenti poco comprensibili, se non dispersi» (Lino Patruno, Gazzetta del Mezzogiorno del 4 marzo 2001).

Animati da quest’attenzione, gli studenti della 4A del Liceo classico Francesco Fiorentino – guidati dal professore Francesco Polopoli, docente di latino e greco – si sono esercitati in un lavoro bilingue di scrittura creativa, in latino ed italiano.

Dalla “patavinitas di Tito Livio”, da cui sono partiti, hanno inteso, poi, dimostrare come rimanga in ogni di noi una restanza flessiva e lessicale, ovunque mettiamo radici. Accaria, Nocera Terinese, Maida, Gizzeria, San Pietro a Maida, Falerna, Stefanoconi, Lamezia Terme negli ex Municipi di Sambiase e Nicastro si sono prestati a narrazioni idiomatiche: il quadro si è allargato finanche a Piazza Armerina ed Augusta.

Voci del passato nella memoria del futuro: nel mese di marzo Polopoli aveva fatto allestire delle tavolette lessicali in terza A come Parete museale della lingua bruzia. Parole calabresi presenti nella Divina Commedia che trovano giustificazione all’interno della scuola poetica siciliana per tramite di Folco Ruffo: il lametino è diventato anche il motto per imparare all’indietro il latino…e non solo.

Sull’importanza della convivenza tra lingua nazionale e locale vale il dialogo di Edmondo de Amicis, che aveva a “Cuore” il problema:

(Il dialetto è il piemontese; ma il dialogo può star benissimo con qualunque altro dialetto d’Italia, sostituendovi altre voci e locuzioni a quelle che son citate ad esempio).

La Lingua. – Buon giorno, fratello. Tu hai la cera rannuvolata.

Il dialetto. – Me la vedo come in uno specchio, Signora, e mi duole di presentarmi a Voi in quest’aspetto.

L. – Perchè mi chiami Signora? Altre volte ti dissi che mi piace esser chiamata sorella. La fortuna e la gloria non m’hanno fatto montare in superbia. Non siamo, tu ed io, rami dello stesso tronco? figliuoli della stessa madre? legati ancora e per sempre da mille somiglianze e proprietà comuni, dalle quali lo straniero riconosce in noi, a primo aspetto, il comun sangue latino? Che cosa t’affanna, fratello?

D. – Ti ringrazio, sorella illustre e venerata. [167] (Scattando) Ma è proprio questo pensiero che mi fa stizzire: d’aver che fare con una razza d’ingrati, i quali, disconoscendo i vincoli che mi legano a te, credono di farti onore disprezzandomi, e, parlando e scrivendo italiano, rifiutano un monte di parole e di frasi mie come se fossero barbare per il solo fatto d’esser mie, e vanno predicando ai ragazzi che, per non offenderti, debbono rifuggir da me come dalla peste bubbonica.

L. – Lo so.

D. – E che ne dici?

L. – Confòrtati. Mi fanno sovente la stessa lagnanza i tuoi fratelli. E scrisse pure un grande maestro che ogni italiano, per imparar la lingua, la dovrebbe studiare tenendo tanto d’occhi aperti sul proprio dialetto; con che volle dire che v’è in ciascun dialetto una grande quantità di modi e costrutti comuni alla lingua; conoscendo i quali, ed usandoli, riuscirebbero tutti ad esprimersi in italiano con assai più facilità ed efficacia che ora non facciano, poichè a quelle forme che si presentano loro spontanee, ed essi rifiutano come puramente vernacole, ne sostituiscono altre quasi sempre men naturali, appunto perchè cercate, e meno proprie, perchè meno naturali.

D. – Ecco la gran verità, sii benedetta! Mi disprezzano per onorarti, e offendono te, disprezzandomi; mi fuggono come un nemico, quando si potrebbero giovare di me come d’un maestro.

L. – Dici il vero. Ma non pensar che ti disprezzino. Ogni giorno sento dire da italiani di questa o di quella provincia che il loro dialetto è più vivace, più vario, più espressivo della lingua, e che col proprio dialetto soltanto riesce loro [168] di dire tutto quello che vogliono, d’esprimere tutte le particolarità d’ogni loro pensiero, tutte le sfumature d’ogni sentimento. Vedi dunque! Ma è singolare. E non sospettano che la grande difficoltà ch’essi trovano a dire in italiano tutto quello che vogliono, deriva principalmente dal credere non italiane una buona parte di quelle forme con le quali appunto possono dir tutto nel vernacolo.

D. – Tu mi riconforti, sorella. Ma se sapessi quanti affronti mi tocca d’ingollare! Ne sento da ogni parte e d’ogni specie. È dialetto; dunque moneta falsa: è la massima. Sento molti ridere quando uno dice, parlando italiano: – legger la vita, mangiar la foglia, bruciare il pagliaccio, trovare una bella vigna, tirarsi da banda, battere il taccone, ridere sul mostaccio ad un tale, far filare uno, far pressa a un altro, tramutare un tavolino, battere una culattata in terra, andar lì lì per morire, tirare avanti la famiglia…. O dimmi tu: non sono modi italiani, di tua proprietà incontestabile, sorella mia?

L. – Li riconosco.

D. – O dunque! E ne potrei citare mille e passa. Giusto, eccone un altro, che guai a chi gli scappa. Bisogna sentire come si spassa certa gente colta alle spalle dei poveri ignoranti che s’ingegnano di parlare italiano, per certe parole e frasi italianissime, credute piemontesismi grossolani. Ho sentito una famiglia intera dare in una risata perchè alla domanda: – che tempo fa? – la serva rispose: – È nuvolo! – Diedero in un’altra risata, un’altra volta, a sentirle dire: – Com’è peso questo bimbo! – La stessa cosa, un giorno ch’ella disse: – La botte versa; [169] bisogna stopparla. – Ma aspetta, che te ne citi dell’altre più curiose, coi commenti relativi degli italianissimi. – Sono uscito senza niente in capo. – Bell’italiano! – Se ci sono stato? Quelle belle volte! – Ah quelle belle volte, che perla! – Grazie! Ho mangiato il mio bisogno. Un signore che mangia il suo bisogno! – No, l’assicella va messa per così. Per così parli la lingua, Ostrogoto? – Dove sta il tale? Deve star per qui (qui vicino). Dio di misericordia! – Svelto come sei, fai un momento a arrivare a casa. – O come si fa a fare un momento, citrullo? – Dopo la Norma, andrà su l’Ernani. L’Ernani che va su! A quale altezza? – Se non c’è appunto sei miglia, siamo lì. Dove lì? – Ah, povera Italia! Dimmi ancora: c’è qualche cosa che offenda la tua purità in tutto quello che ho detto?

L. – Nulla, fratello. Son tutte forme della lingua parlata, usatissime da chi più mi conosce e mi rispetta.

D. – Deo gratias. Se tu sentissi, in certe case, dove si parla l’italiano per istituto, che rabbuffi toccano a dei poveri ragazzi quando si lasciano scappare di bocca spasseggiare, slargare, sgraffignare, disgruppare, ciaramellare, tambussare, ciucciare, impappinarsi! – Questo è italiano di Porta Palazzo: bene spesi i denari per mandarti a scuola! – A un ragazzo che diceva piangendo: – M’hanno dato! (delle busse, era sottinteso), udii rispondere: – E te lo meriti, se parli italiano in codesta maniera. – E: – berrai quando parlerai meglio – a un altro, che chiedeva dell’acqua dicendo che aveva una sete del diavolo. E non parlo delle correzioni che fanno molti insegnanti ai componimenti scolareschi; nei quali, [170] oltre agli errori inevitabili nella prima età, bollano come strafalcioni, per la sola ragione che sono dialettali, una quantità di modi correttissimi, che i piccoli scolari, poveretti, non sono in grado di giustificare. Se ne vuoi sentire….

L. – Ne son curiosa.

D. – E io ti contento. Ho appunto sott’occhio i componimenti d’una quarta classe elementare, corretti da una maestrina, della quale non si può dire che non conosca la lingua, chè anzi scrive benino. Ebbene, ci trovo segnati come piemontesismi, con la matita rossa, una decina almeno di modi, che tu certamente non ripudii. – Torino fa 350 000 abitanti. C’è un frego rosso sul fa. – La famiglia costumava festeggiare il natalizio del babbo. Condannato costumava. – La mamma si tapinava tutto il giorno. Bollato il tapinava. – Doman da sera. Tre punti d’esclamazione. – Un dopo desinare verrò da te. Un frego rosso all’un dopo desinare e al verrò, chè s’ha da dire andrò, si capisce. Passò da Torino, invece di per, sottolineato. – Disse che non ci sarei riuscito; ma io l’ho fatto bugiardo. Un punto interrogativo rosso accanto a questo modo. – Son nato del 1891. Riprovato il del. Figurava di non volere; ma non aspettava altro. Sostituito fingeva. – E tu non vieni? fa la sorella. Crociato il fa. – Una cosa fatta come va. Un tratto rosso anche a questo. E se ne vuoi dell’altre, che ho pescate altrove, ce n’ho un cestone….

L. – Codeste mi bastano, chè ne so molte anch’io. Quanto rosso sciupato, dio buono! E questo è risibile, che i più di coloro che si dànno tanta cura per iscansar codesti pretesi errori [171] dialettali, si lasciano sfuggire a ogni tratto dialettismi veri e bruttissimi, per isbadataggine, o perchè non li conoscon per tali. Ed è naturale: non si può badare insieme a ogni cosa: mentre si guardan dagli uni, inciampano negli altri.

D. – E così dagli altri italiani mi fanno dar del barbaro coi dialettismi veri, e mi trattano di barbaro essi medesimi dando la caccia ai dialettismi falsi. E mi son ristretto a citare vocaboli. Lascio da parte un gran numero di forme sintattiche, di legature, di giri di frase svelti e efficaci, che sono cosa mia e tua ad un tempo, di cui potrei cavare esempi dai tuoi più grandi e puri scrittori, e da cui si guardano parlando e scrivendo italiano, come da azioni disoneste, per usare invece forme scontorte, giunture che stridono, costrutti forzati e pesanti; che sono nel concetto loro i soli corretti. E m’hanno l’aria di gente che fabbrichi dei ponti per passare un fil d’acqua…

L. – Ed è vero anche questo, fratello. E hanno ragione al par di te i fratelli tuoi, che un fanno le stesse lagnanze. Ma il tempo vi renderà giustizia, non dubitare. Via via ch’io sarò conosciuta e parlata da un numero sempre maggiore d’italiani, scoprendo questi da sè quante voci e forme son comuni a me e ai loro vernacoli, e gli scrittori mettendole in mostra e in commercio, sempre più si farà manifesta la vanità di gran parte della fatica che ora si dura a scansare errori immaginari, e una sempre più larga parte dell’esser tuo si confonderà col mio nelle lettere, e ti sarà reso l’onore che meriti, e saranno lamentati gli oltraggi che ora ti si recano, e si [172] trarrà da te forza, vita, colore, varietà, comicità, naturalezza, per parlare e per scrivere italianamente. Mi credi?

D. – M’hai racconsolato. Ti ringrazio…. e ti riverisco, Signora.

L. – Chiamami sorella.

D. – Sorella ti posso chiamare nel corso dei nostri colloqui; ma non presentandomi a te, nè accomiatandomi. Nell’atto di salutarti, il mio amor fraterno è sovrappreso da un senso di riverenza. Dietro di te, vedo Dante.

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