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LIFF9. Il Teatro e l’Attore: la “lectio magistralis” di un immenso Toni Servillo

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Lamezia Terme, 13 luglio 2022, Parco della Piedichiusa. Dopo la magnifica presenza di Ornella Muti, Toni Servillo è l’attesissimo ospite della seconda giornata del Lamezia International Film Fest, giunto alla nona edizione con la direzione artistica di Gianlorenzo Franzì. Un appuntamento ormai storicizzato, molto atteso in città e che ad ogni edizione regala la presenza di prestigiosi ospiti nazionali e internazionali che vengono insigniti dei Premi – il Premio “Ligea” e il Premio “Paolo Villaggio” – creati dal M° Antonio La Gamba.

Dégagé, camicia bianca e mezzo toscano. Si presenta così Toni Servillo, il divo più antidivo del panorama artistico italiano. La sua carriera inizia a teatro, appena diciottenne. Il cinema lo scopre a 40 anni ma, nonostante il successo internazionale, non ha mai ceduto alle lusinghe della “fama”. Continua ad abitare a Caserta e la sua vita scorre sui binari di una normale quotidianità. Come attore ha sempre avuto rispetto per tutti i personaggi che ha interpretato, sia per quelli che richiedevano “stentoreità interpretativa” sia per quelli attinti dalla vita reale e delineati con tratto più leggero. Il personaggio a cui rimane più legato è quello del guappo in “Rasoi” di Enzo Moscato. Ama la musica e si è anche cimentato nella regia di opere liriche ma ha interrotto questa attività per l’eccessiva sindacalizzazione degli artisti.

Nella lunga e interessante conversazione con Matteo Maria Giorgetti, direttore della storica rivista “Sipario”, Servillo, sollecitato dalle domande di Giorgetti, si produce in una lectio magistralis sullo stato del teatro nell’era post pandemica e sul ruolo dell’attore. Servillo non crede che la pandemia sia stata lo spartiacque tra un “prima” e un “dopo” del teatro. Il teatro aveva criticità e punti di forza anche prima del Covid e, oggi, nonostante la situazione sanitaria sia in fase di recrudescenza le sale cinematografiche sono desolatamente vuote e i teatri pieni. Ma questo è sempre successo ogni volta che un Paese si è trovato in una eccezionale atmosfera di pericolo. Il teatro ha sempre rappresentato una occasione di conforto intellettuale ed emotivo. Ci sono anche tante opere che descrivono situazioni siffatte, basti pensare al film di Truffaut “L’ultimo metro” che racconta di una compagnia teatrale che non rinuncia alle prove dello spettacolo in una Parigi occupata da nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il teatro aggrega le persone dal vivo. Ma anche eventi come questo festival offrono una importante occasione di socialità riproponendo un rito che, da sempre, appartiene al teatro ovvero “condividere” nello stesso tempo, sullo stesso fiato, un pensiero, un’emozione irripetibile. Il teatro è un incontro, e lo spettacolo è come un appuntamento, può deludere o emozionare esattamente come una persona perché scegliere di andare a vedere uno spettacolo significa crearsi delle aspettative. Il calore che è capace di manifestare il teatro nella vicinanza, nella contemporaneità, nella condivisione di un tempo e di uno spazio, il calore che un testo sa trasmettere a una platea sono condizioni che creano quel conforto che altre forme d’arte hanno sempre rappresentato meno. Questo accadeva anche al cinema, nonostante la condizione di maggiore solitudine e la mancanza di quella ritualità che è propria degli spettacoli dal vivo e prima che le piattaforme, con la loro aggressività, prendessero il potere tenendo la gente chiusa in casa a consumare da mangiare e da vedere.

Un appunto a chi, oggi, recita a teatro con i microfoni e un ricordo di suo padre che diceva “Vado a sentire Eduardo” usando il verbo “sentire” nella doppia accezione che coinvolge la facoltà dell’udito e quella della percezione emotiva. E ancora la necessità dell’attore di mantenere un certo riserbo sulla sua vita personale. La sua prima compagnia teatrale a 18 anni. L’invito ai giovani ad essere intraprendenti costruendosi uno spazio indipendente.

Poi una dotta dissertazione sulla “natura” dell’attore. Erroneamente si crede che l’attore sia in grado di esprimere sé stesso. Nulla di più falso, l’attore usa dei trucchi che sono messi in moto dall’immaginazione. Immaginazione che lavora intorno ad un atto creativo preesistente che è il personaggio, a sua volta opera di un poeta drammatico. Con quello si confronta attraverso strumenti acquisiti e affinati nel tempo e in questo modo si fa testimone per il pubblico della potenza che è chiusa all’interno di un meccanismo drammatico. Infatti, da un punto di vista prettamente drammaturgico, l’attore è colui che, per delega da parte dello spettatore, testimonia la grandezza di un personaggio e in questo risiede la sua responsabilità. Egli, attraverso la sua tecnica, le sue rinunce, i suoi sacrifici, offre allo spettatore la possibilità di vedere sintetizzata una parte della propria vita, di vedere qualcuno che la vive al posto suo inducendolo a riflettere. I grandi attori, quelli che hanno segnato un’epoca, con la loro maestria, con il loro sacrificio (nel senso che hanno rinunciato ad altre ipotesi di vita per concentrare tutto in questo mestiere) hanno coinciso con la figura dei grandi poeti. Salvo Randone, Eduardo De Filippo, Gianni Santuccio sono stati dei “poeti della scena”, cioè attraverso una galleria dei loro personaggi hanno offerto allo spettatore un’idea di stare al mondo, aiutandolo – nel confronto – a orientarsi nella vita. A teatro è l’attore che porta tra le mani e dona allo spettatore il cuore di ciò che sta accadendo in quel momento. La relazione con il teatro è una relazione orientata ai sensi, in questa accezione il teatro è una questione erotica perché ha al centro il corpo in tutta la sua scandalosità, quando non c’è il corpo non c’è l’uomo e senza l’uomo non c’è il teatro.

In merito alla considerazione che il pubblico nutre nei confronti degli attori, Servillo ricorda la sua esperienza a Mosca e dice che in Russia gli attori vengono chiamati gli “artisti del popolo” perché sono coloro che incarnano la dimensione letteraria o di pensiero dal vivo con tutto il popolo intorno e per questo sono meno dimenticati. Un ricordo di Dario Fo vincitore del Nobel. E poi una riflessione amara sulla società di oggi in cui, tra televisione e social, si assiste ad una recita continua. Intrattenitori e politici hanno rubato la scena agli attori creando nello spettatore una sensazione di disorientamento. Anche il giornalismo, seguendo i dettami della Commedia dell’Arte, spesso mette attorno a un tavolo il buono, il cretino, il simpatico, il bello e fa uno spettacolo con un’audience molto alta. Mentre nei telegiornali le notizie più importanti sono confezionate in stile recitativo generando uno stato d’ansia continua. E cosa dire dei servizi di guerra montati con inserti musicali? Tutto ciò che dovrebbe essere rappresentato con chiarezza nella sua nudità è edulcorato da una recita. È molto difficile sostenere l’equilibrio tra la finzione e la realtà in uno spazio vissuto e condiviso dove è venuta a mancare una condizione fondamentale per il gioco del teatro: la disponibilità alla convenzione. Ormai lo spettatore si è assuefatto a “fare finta che” su cose reali, il gioco della rappresentazione ricalca il modello delle scatole cinesi e lo spettatore si sente intrappolato quando non nauseato.

In un momento storico come questo, per esempio, in cui si paventa una guerra nucleare, un uomo di teatro potrebbe pensare che “Napoli milionaria!” sia l’opera di Eduardo più consona ad aggregare il maggior numero di persone intorno ad una riflessione di questa natura. Nel testo è contenuta la battura diventata ormai proverbiale “Ha da passà ‘a nuttata” ma in realtà la battuta più importante pronunciata da Gennaro Jovine è “’A guerra nun è fernuta… E nun è fernuto niente!”. In questo mondo in cui si sono persi i riferimenti alle convenzioni, subissato da recite continue, con le maschere della Commedia dell’arte, con gli Zanni e gli Azzeccagarbugli offerti dall’universo televisivo lo spettatore potrebbe decidere di scegliere gli spettacoli televisivi e non andare a teatro. Oggi, per recitare un personaggio come Jovine ci vorrebbe un attore sensibile in grado di organizzare intorno a sé tutta la ricchezza drammatica che il testo contiene, altrimenti si correrebbe il rischio di trasformarlo in una rappresentazione sterile, superficiale, magari interessante ma l’arte non deve interessare, deve dare fastidio, deve scandalizzare, far percorrere sentieri mai battuti.

Ancora una riflessione sul ruolo che lo Stato dovrebbe rivestire nei confronti del Teatro. E a questo proposito cita una battuta di Louis Juvet, “Teatro cariato, nazione cariata”, contenuta nel testo di Giraudoux del 1950 “L’Improvvisata di Parigi”. Servillo afferma che uno Stato che non riconosce il valore formativo delle arti è uno stato incivile o in difetto di civiltà. Il riferimento non è tanto alla legge Bacchelli, che pure ha svolto una funzione importante, ma ai tanti teatri italiani che avrebbero dovuto essere assegnati a uomini di teatro. Lo Stato dovrebbe creare delle case per consentire a grandi attori e registi di esercitare al meglio il loro mestiere e soprattutto “formare” perché il teatro è un’arte della formazione legata all’attività concreta. A Parigi ci sono tanti teatri dedicati al magistero di attori e registi che hanno fatto di quei luoghi la loro casa. Il teatro-casa ma anche il teatro-chiesa, dunque, come luogo in cui trovare rifugio. Inoltre, i teatri pubblici dovrebbero essere amministrati da manager ma la direzione artistica deve essere affidata ad un artista in grado di organizzare una stagione teatrale con una coerenza, una visione, un progetto capaci di lasciare un segno che caratterizzi “quel” teatro.

Poi si sofferma sul suo rapporto con la poesia a teatro e parla del suo prossimo debutto “Tre modi per non morire” con liriche di poeti greci, di Dante e Baudelaire innestate in un testo scritto da Giuseppe Montesano, un viaggio dentro la poesia volto a recuperare una “dimensione dell’essere e del sentirsi ancora in vita e non morti in vita”.

La chiosa è dedicata al suo totale disinteresse per l’insegnamento. Egli afferma che non potrebbe insegnare nulla ad un attore se non può condividere con lui la difficoltà di un testo e la sfida di andare in scena. Oggi ci sono troppi ciarlatani che si improvvisano maestri senza alcuna preparazione rischiando di rovinare generazioni di ragazzi. Ma la constatazione più amara è che i giovani non sanno leggere. È necessario saper leggere prima di cimentarsi nella recitazione. Non si deve portare in scena se stessi ma bisogna cercare di capire a quali energie si può attingere per rappresentare un grande personaggio o trasmettere un’emozione. È questa la differenza tra la “nobiltà dell’attore e la sterile amministrazione del talento”.

Al termine della serata il Premio “Ligea” consegnato all’attore da  Anton Giulio Grande, commissario straordinario della Film Commission Calabria.

A seguire, la visione del film di Mario Martone “Teatro di guerra”, la storia di una compagnia di Napoli che intende portare solidarietà ai popoli dei Balcani durante la guerra degli Anni ’90. Nel film Servillo interpreta un regista cinico che vede il teatro come puro intrattenimento, passatempo consolatorio della noia di esistere.

Giovanna Villella

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