Lost in… True Detective 1: serie tv noir, nichilista e beckettiana
5 min di letturaPer il nuovo appuntamento di Lost in… proponiamo la recensione della prima stagione di True Detective, una serie tv ontologica americana scritta da Nic Pizzolato con la regia di Cary Joji Fukunaga che ha debuttato sul canale HBO nel 2014.
True detective è composta da tre stagioni, ma, trattandosi di una serie ontologia, ciascuna stagione è a sé sante e tratta vicende diverse con personaggi diversi, più propriamente racconta la storia di differenti coppie di detective per ogni blocco. Per questo motivo abbiamo deciso di recensire la prima stagione, separatamente dalle successive.
La prima stagione ha come protagonisti Rust Cohle (interpretato dal premio Oscar Matthew Macconaghey) e Marty Hart (interpretato da Woody Harrelson). I due detective fanno parte della medesima divisione della polizia criminale della Louisiana e nel 1995 gli viene assegnata una complessa indagine riguardo a un macabro omicidio commesso da uno spietato assassino attratto dall’occultismo. Mentre tentano di stanarlo, le loro stesse vite cominciano ad intrecciarsi inesorabilmente e parallelamente ad entrare in conflitto e perciò, quando, nel 2012, un omicidio analogo porta alla riapertura del caso del ’95, Rust e Marty dovranno raccontare separatamente ai poliziotti la storia dietro alla loro indagine, le loro vite dunque e anche quale fosse all’epoca il loro rapporto come detective e come amici.
La serie è caratterizzata da una tattica lentezza volta a rendere su schermo quell’atmosfera di crudo nichilismo che la caratterizza. Ogni episodio sembra un contenitore blindato, dunque una scatola chiusa rappresentante metaforicamente la mente umana. Il tutto è reso in una maniera così meta-teatrale da ricordare negli intenti il capolavoro di Samuel Beckett, Finale di partita, la cui grigia ambientazione, circoscritta in maniera analoga, ricorda altrettanto metaforicamente l’interno del cranio umano. La Louisiana di True Detective è anch’essa grigia, oltre modo spezzata e squilibrata, e conferisce allo scenario, e quindi allo scandirsi degli eventi, le similari connotazioni ossessive di una regressione o di un incubo. L’atmosfera pertanto è spettrale, putrescente, gotica, ma oltre ogni misura seducente.
La figura di Rust Cohle sembra incarnare tali caratteristiche e rappresenta lo specchio fedele di questa negatività che paradossalmente trova la sua positività proprio nella dichiarazione del negativo. Le sue elucubrazioni costruiscono dialoghi carichi di vuotezza e si pongono come rappresentazione della vita intesa a sua volta come dramma. Definire Rush Cohle come un pessimista risulta però un’etichetta riduttiva e fuorviante. Piuttosto è un genio misantropo ed un visionario per cui il suo non è un non riconoscere differenze tra bene e male, ma avere il coraggio di ammettere che il male è parte intima e caratterizzante dell’uomo, la cui vita di patimenti non è altro che l’espiazione di una congenita colpa. Ogni episodio diventa pertanto una spasmodica attesa del prossimo concetto metafisico espresso da Rust il quale, nella sua delirante, ma lucida spirale di fascino, introspezione e intelligenza, è assolutamente uno dei personaggi più interessanti e ben costruiti nella storia di tutte le serie tv.
Il suo collega Marty Hart invece risulta nettamente più superfluo, superficiale e pieno di ipocrisie che lo definiscono chiaramente come uomo medio. Non si fa alcuno scrupolo nel tradire ripetutamente sua moglie e ai sagaci ragionamenti di Cohle non sa rispondere se non sbottando, in quanto è piuttosto carente di argomentazioni. Marty rappresenta comunque una buona spalla per il detective Cohle che decolla ancora di più in virtù della sua evidente differenza e impareggiabilità.
Per concludere, è bene affermare e confermare che il punto di forza di True Detective non è la trama, ma la filosofia e la letteratura che racchiude in sé attraverso dialoghi assolutamente indimenticabili. Inoltre la fotografia è di alto livello, la regia assolutamente virtuosa. Degno di nota è il piano sequenza del quarto episodio attraverso il quale la macchina da presa, per ben sei minuti, insegue ininterrottamente i movimenti di Rust Cohle, in un mix di azione e stallo, silenzio e spari; un artificio che ha reso questa serie tv una vera icona ed un cult, entrando di diritto nella storia della televisione.
Se ancora non fosse chiaro, consigliamo caldamente la visione di questa serie tv in grado di regalare otto episodi di pura poesia e riflessione e a riprova di ciò concludiamo questa recensione proponendo uno dei dialoghi più noti di True Detective.
Rust: “Io mi considero una persona realista, ma in termini filosofici sono quello che definiresti un pessimista.”
Marty: “Ok, che cosa significa?”
Rust: “Che non sono uno spasso alle feste”
Marty: “Lascia che te lo dica, non lo sei neanche in altre situazioni”
Rust: “Credo che la coscienza umana sia un tragico passo falso dell’evoluzione. Siamo troppo consapevoli di noi stessi. La natura ha creato un aspetto della natura separato da se stessa. Siamo creature che non dovrebbero esistere per le leggi della natura.”
Marty: “Mi sembra una gran bella stronzata!”
Rust: “Siamo delle cose che si affannano nell’illusione di avere una coscienza. Questo incremento della reattività e delle esperienze sensoriali è programmato per darci l’assicurazione che ognuno di noi è importante, quando invece siamo tutti insignificanti.”
Marty: “Io non andrei in giro a sparare queste stronzate! La gente da queste parti non la pensa così, io non la penso così!”
Rust: “E io credo che la cosa più onorevole per la nostra specie sia rifiutare la programmazione, smetterla di riprodurci, procedere mano nella mano verso l’estinzione, un’ultima mezzanotte in cui fratelli e sorelle rinunciano ad un trattamento iniquo.”
Marty: “Allora che senso ha alzarsi dal letto la mattina?”
Rust: “Io dico a me stesso che sono un testimone, ma la risposta giusta è che sono stato programmato così e mi manca la disposizione al suicidio.”
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Simona Barba Castagnaro