Il mare inquinato del litorale lametino: un grido di resistenza per la tutela ambientale
4 min di letturaRiflessioni sulla crisi ambientale e sullo sfruttamento del litorale lametino: un appello per un cambiamento radicale
Comunicato Stampa
Quest’anno il mare del litorale lametino è risultato particolarmente inquinato.
Questo stato di alterazione ha riacceso i riflettori su uno dei problemi di inquinamento più evidenti che toccano direttamente l’intera collettività.
In particolare, l’ultimo episodio è il sequestro un tratto di circa 380 metri del canalone industriale che si immette alla foce del fiume Turrina, dove sono stati riscontrati valori significativi del batterio Escherichia Coli, nonché di azoto ammoniacale, con possibili profili di inquinamento ambientale.
Sarebbe utile ricordare che quest’area, soggetta a vincolo paesaggistico e ambientale, essendo confinante con ben due Siti di Interesse Comunitario (Dune dell’Angitola, Palude di Imbutillo), che ospitano numerosi habitat prioritari a livello europeo, non è nuova a tristi vicende legate all’inquinamento ambientale. Si ricordi l’inchiesta “Waste water” , che nel 2021 mise in luce lo sversamento illecito di rifiuti industriali proprio nel medesimo canale.
Questi continui soprusi ai danni di un territorio già fragile contribuiscono a creare un alone di rassegnazione nella popolazione, oltre che arrecare numerosi danni alla salute, oltre che economici.
Ma queste vicende ci forniscono anche lo spunto per interrogarci su cosa significhi la tutela ambientale per noi. Crediamo, infatti, che l’ecologia, oltre ad essere lo studio degli ecosistemi, debba essere, come la definì Andrè Gorz, una disciplina sovversiva, in grado di mettere in discussione l’intero apparato di produzione e di estrazione capitalistica che sta conducendo l’umanità verso la catastrofe ecologica.
Tornando al nostro mare sporco, l’esercizio che permette di “leggere” la realtà in chiave realmente ecologica dovrebbe essere quella di interrogarsi sulle cause del disequilibrio venutesi a creare, che di volta in volta non dovrebbero essere attribuite al singolo episodio, quanto piuttosto al modello economico-produttivo complessivo che insiste sul nostro territorio.
Semplificando, nel nostro caso, è il tessuto industriale e agricolo intensivo ad aver alterato profondamente gli equilibri ambientali del nostro litorale.
La zona interessata dal degrado ambientale è la tristemente famosa Area ex-Sir (Società Italiana Resine), un progetto industriale fallimentare il cui simbolo rappresentativo è senza dubbio il pontile che avrebbe dovuto consentire l’attracco delle navi all’impianto chimico della Società italiana resine.
Costruito nel 1971 e finanziato con i soldi arrivati in Calabria dopo la “rivolta” di Reggio con il “pacchetto Colombo”, crollato nel 2012, senza che mai nessuna nave lo abbia mai utilizzato, metafora del fallimento di un progetto industriale che nei decenni si è tramutato in disastro ambientale. È l’esempio emblematico di politiche industriali calate dall’alto, di devastazione ambientale con la promessa di posti di lavoro mai realizzati.
Così, l’integrità dei luoghi e la possibilità di goderne per la popolazione sono stati sacrificati sull’altare degli investimenti all’epoca concentrati sulla chimica industriale L’area industriale di Lamezia oggi ospita decine di aziende (ricordiamo costruita in un’area litoranea sottoposta a vincolo paesaggistico e ambientale, che nel 2018 ha subito una grave alluvione), alcune delle quali sono responsabili delle attuali condizioni di inquinamento dell’area. Come dimenticare, poi, i diversi progetti di “rilancio economico” dell’area, come la famosa “bufala” della Biofata, ovvero un progetto integrato agroindustriale da oltre 76.000.000 di euro, le centrali a biomasse o l’ecodistretto.
“Miracolo” economico che nell’area Ex Sir non è arrivato neppure dopo la visita di Papa Benedetto XVI nel 2011. Ma cieca davanti l’evidenza del disastro che abbiamo di fronte, la politica lametina non finisce mai di stupirci. E allora ecco che qualche tempo fa viene tirata fuori una faraonica opera di porto turistico all’interno di un’area industriale, denominato “WaterFront” rigorosamente in stile Cetto La Qualunque.
Per fortuna, l’opera è naufragata a causa della dipartita del suo sceicco investitore, ma rimane per noi il monito di quanto la politica sia pronta in ogni momento a svendere il nostro territorio al migliore offerente e di come si riproponga sempre la creazione di grandi opere come risoluzione dei problemi della nostra terra. Non era certamente questo il destino e la vocazione di un’area, quella costiera del golfo di Lamezia, che ancora sul finire degli anni 60 era, nei racconti dei più anziani, un paradiso naturale.
La zona costiera ospitava un ecosistema pressoché intatto, che oggi avrebbe avuto ben altro destino rispetto all’abbandono e al degrado di cui siamo testimoni. Concludendo, la rabbia che proviamo non è tanto per il mare sporco, che è soltanto l’effetto più evidente solo perché ci colpisce direttamente, quanto piuttosto il fatto che tale danno alla collettività viene arrecato a beneficio del profitto di pochi.
Queste contraddizioni evidenti ci convincono ancora di più dell’impossibilità di conciliare l’accumulazione capitalistica con la tutela delle risorse naturali e della salute umana.
Risulta evidente che, senza un cambiamento radicale del modo di produrre e soprattutto senza una riappropriazione e un controllo dal basso dei luoghi del lavoro, i criminali e gli inquinatori per aumentare i loro profitti non esiteranno a continuare indisturbati, rendendo gli equilibri ambientali del nostro territorio sempre più fragili e precari.
Collettivo Addùnati