Marina Cvetaeva, poetessa infelice e abbandonata
5 min di letturaEra il 1892, un 26 settembre moscovita (8 ottobre secondo il calendario gregoriano), e quel giorno la poesia accolse tra i propri ranghi una delle sue penne più fervide, due tra i suoi occhi più acuti, una tra le sue menti più vivaci: Marina Cvetaeva. “Di notte Marina legge. Guarda sempre come se prendesse in giro. Non vuole che le si facciano domande stupide, altrimenti si arrabbia molto. Certe volte cammina come sperduta, ma improvvisamente si riprende come svegliandosi, comincia a parlare e di nuovo se ne va da qualche parte”.
Marina Cvetaeva, la poetessa di Russia
Marina è una donna trasparente come il vetro, ma non un vetro qualunque: la sua fattura è assimilabile a quella di un mosaico, ricco e colorato, delicato e fragile eppure capace di mantenere per secoli il proprio smalto attraverso il quale la luce filtra e si trasforma in raggi d’oro. In idilli pungenti. Marina Ivanovna Cvetaeva è la poetessa di Russia. La Cvetaeva inafferrabile, l’enfant prodige che a soli sei anni componeva versi in tre lingue differenti e non ne aveva venti che già attraversava l’Europa da letterata. Neppure trentenne la percorreva da esule. Esiliata dalla terra amata, da quella terra che, come Madre crudele, l’aveva allontanata costringendola a vagare tra Praga e Parigi, con i propri amori folli e fugaci, i propri versi ardenti, il proprio desiderio di catturare la vita su una manciata di fogli volanti.
Poesia e scelte dolorose della Cvetaeva
Imbevuta d’arte fin dalla più tenera età, figlia di una rigida musicista tedesca e di un filologo d’indiscussa fama, Marina è cresciuta tra la severità metodica della madre e gli studi critici del padre, tra musica e letteratura, tra ricerca e conquista. Con questo bagaglio sulle spalle, Marina Ivanovna lascia Mosca alla volta di Parigi nel 1908 per studiare l’amata letteratura francese. Ha diciotto anni quando, tacendolo ai propri famigliari, riesce a pubblicare la prima silloge dal titolo “Album serale”, ritagliando per sé uno spazio per nulla irrilevante nel nuovo panorama letterario russo che rifioriva attorno a nomi come Pasternak, Achmatova, Majakovskij e Mandelstam. E sono anche quelli gli anni che la vedono sposa di Sergej Efron, editore sovversivo. È il 1912, un anno particolare nella vita della Cvetaeva perché, con la pubblicazione della seconda raccolta “Lanterna magica”, seguita da “Da due libri” (1913), segna l’inizio del suo silenzio poetico, ma allo stesso tempo la avvia verso la scoperta del mondo: si tratta di un silenzio produttivo, di un vagare in cerca della propria dimensione, del proprio peso. Fino al 1921 si riversa sulla scrittura costante, lavorando minuziosamente sulla ricerca della propria voce vera, di quel grido personale in grado di staccarla dallo scenario nel quale si era inserita con le prime pubblicazioni, regalandole originalità, una restaurata freschezza e una nuova forza poetica. Ma sono anche gli anni degli stenti, della solitudine e degli abbandoni; tra il 1917 e il 1918 Marina deve compiere scelte laceranti: spinta dalla fame è costretta a scegliere tra la figlia Arjadna e la figlia Irina. E sceglie: si lascia alle spalle una bambina denutrita, debole, incapace di affrontare le dure prove dell’esistenza. Irina, la figlia abbandonata, morirà due anni più tardi in un orfanotrofio; Arjadna, la figlia salvata, seguirà Marina. Nessuna madre preserva dalla morte un figlio, gettandovi l’altro. Marina non riuscirà mai a superare quel momento al punto da farlo emergere con forza in uno dei suoi racconti, “Racconto di mia madre”, pervaso dal sapore del ricordo, della paura di sapere, dell’angoscia del rimorso. “Voglio che tu sia eternamente infelice per aver “scelto””.
L’esilio
Liriche violente e immediate, graffianti eppure delicate ed evocative: così si presentano i lavori che si succedono uno dopo l’altro a partire dal 1922, l’anno dell’esilio, l’anno del ricongiungimento con un marito lontano, l’anno della separazione con la terra amata. In quegli anni nasce Mur, il terzo figlio al quale Marina si lega a doppio filo. Si ferma a Berlino, poi a Praga e infine a Parigi, escono le sillogi “Quelli delle fabbriche”, “Elogio ai ricchi”, “Il poeta”, “Il poema della barriera”, “L’accalappiatopi”, “Dopo la Russia”, “Versi per il figlio”, “I lettori di giornali” e “Versi per la Cecoslovacchia”. Ma la felicità rimane fugace e inafferrabile: unitosi ai servizi segreti russi, nel 1925 Sergej Efron torna in patria sotto copertura seguito a ruota dalla giovane figlia che ne ha sposato gli ideali e l’impegno. Marina Cvetaeva si ritrova nuovamente sola, con l’amato figlioletto, sperduta in un mondo al quale sente di non appartenere.
Gli ultimi anni e la tragica fine
Tuttavia il suo rientro in Russia non è lontano: torna a Mosca nel giugno del 1939, ma la riunione di famiglia dura ben poco. Il primo arresto avviene in agosto, la polizia mette le mani sulla figlia Arjadna; a ottobre è il turno di Sergej Efron del qual da quel momento si perde ogni traccia. Marina è straziata, si aggrappa ancora una volta alla sua poesia, scrive incessantemente, si stringe sempre di più a un figlio che inizia a non comprenderla. Persa ogni sicurezza, separata con violenza dagli affetti, Marina è gettata nella propria solitudine, costretta ad affrontare la storia armata ormai di qualche granello di speranza. Granelli che si frantumano nel 1941, quando l’avanzata dei nazisti nei territori sovietici la spingono all’ultima, definitiva, scelta: Marina sale sul treno per Elabuga, nella repubblica autonoma del Tatarstan, insieme al figlio. Il mese di agosto è iniziato da poco, l’unico pensiero è la salvezza. Tuttavia ciò che incontra è la consapevolezza del proprio destino: la sua esistenza è un pesante ostacolo, un labirinto senza uscita. Il 31 agosto 1941, in quella remota cittadina orientale sulle rive del fiume Kama, Marina Cvetaeva affigge la parola fine al suo più intenso idillio stringendo al suo collo il cappio fatale. “È triste e svelta, ama le poesie e la musica. Anche lei scrive poesie. È paziente, sopporta fino all’estremo. Si arrabbia e ama. Deve sempre correre da qualche parte. Ha un’anima grande. Una voce tenera”. È Marina, la Cvetaeva.
Daniela Lucia