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Mariuccia e quella storia dei fichi

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fichi

Il nome di Maria, comunissimo in Calabria, sta diventando ancora più virale, a seguito della vicenda “Cotticelli”: nel nostro caso ci sposteremo dal piano della pantomima a quello fiabesco, almeno per poter dare alla nostra Regione l’augurale etichetta di “felice e contenta”

Una famiglia calabrese, tanti anni or sono, aveva una figlia di nome Mariuccia: umile ed agreste in fatto di origini, rispettosa nei confronti di chicchessia.

La piccola andava a lezione di cucito da una maestra, portandosi dietro un bel panierino di fichi. Quell’insegnante, assai ghiotta di frutta, aveva un ascendente sulla sua allieva al punto da farla sbarazzare della madre: eh sì, quella mollò il coperchio della cassapanca, dopo che l’altra aveva infilato la testa dentro, per prendere leccornie di vario genere.

Fu un dolore incommensurabile: una tragedia, insomma! Il padre non riusciva a darsi pace e dal momento che le frequentazioni di Mariuccia «ccu lla maistra» erano diventate molto più familiari, pensò, per l’educazione della sua figliuola, di convolare a nuove nozze con Gemmetta, la sarta, che generosamente si era dedicata a tutti loro, anche in quel frangente, al di là del lavoro di sartoria, cui era stata solo chiamata per svezzare Mariuccia ed iniziarla alla vita adulta.

Il padre, pieno di remore, le mandò a dire che l’avrebbe sposata, solo quando avrebbe visto casa sua fiorita: la donna non si scoraggiò per quella risposta, anzi, spedì tutte le sue allieve a raccogliere fiori, per poi infilarceli sui quattro muri della sua abitazione domestica.

Il rito nuziale non tardò ad arrivare: quel giardino paradisiaco, consumatosi davanti ai suoi occhi, non poteva non essere che foriero di bene, sicurissimamente! Tuttavia, appena si insediò, la matrigna cominciò ad insidiare la ragazza, dandole da lavare montagne di panni con un mozzicone di pane ed un pezzetto di sapone: fortunatamente ci pensarono le lavandaie, di volta in volta, a fare in modo che ritornasse «dintra ’a casa sua» con panni e vestiti puliti.

Indisposta ed indispettita per tutto questo, Gemmetta pensò di inviarla al palazzo del re, per liquidarsene del tutto: la giovane scoppiò in lacrime e tutta sconsolata se ne andò in chiesa, dov’era sotterrata sua madre, a piangere la sua sventura, ché di certo l’avrebbero ammazzata al cospetto di Sua maestà, anche perché non sapeva, tra l’altro, cosa avrebbe potuto dirgli. «Figlia mia, non hai che da rimproverare te stessa», le sembrò di sentire dal tumulo materno, «ma ascoltami bene: io ti do questo sacco di loglio e questo setaccio. Tu lo farai granulare in presenza della regina che, grazie a questa pozione, partorirà un bel Marcavallo, che ti daranno successivamente per marito».

Rassicurata da un presagio rassicuratore, fece la sua visita presso la Reggia e tutto filò liscio come le era stesso preannunciato.

Un particolare le era sfuggito nella predetta conversazione materna: quel Marcavallo, di giorno, era cavallo, mentre, di notte, un buon cristiano, come tanti. Eppure se lo portò all’altare, incurante di quella bestialità, per cui non sembrava dimostrare fastidio, assolutamente!

Dopo qualche tempo Mariuccia rimase incinta e, poco prima del parto, una draghessa tirò il suo consorte dai piedi, rapendolo. Fu la notte più buia per lui, tanto da farlo percorrere in lungo ed in largo nello spazio angusto, dove era stato posto a confinamento.

Arrivò persino a rivolgersi ad una lampada, messa lì in un cantuccio, dicendo le parole più meste: «lume vermiglio, / che fa la mia mogliettina con mio figlio? / Per saperlo chissà che darei, / e in fasce d’oro l’avvolgerei». Per una strana congiuntura del destino quell’eco arrivò dritto dritto alle orecchie dell’amata che, affacciata alla finestra, domandò come avrebbe potuto recuperarlo.

Anche qui, seppur distanziati, la risposta non tardò ad arrivare: otto paia di scarpe di ferro da consumare a piedi ed otto berretti da far scoperchiare sotto i raggi battenti del disco solare, per partire ed andare da lui, che non poteva, da lì, più tornare. E così fece, finché non se lo ritrovò, ammaliato da quella maledetta draghessa, che non voleva, per nessuna ragione al mondo, condividerlo con nessun’altra: tuttavia, per non rendersi visibilmente indisponente, le propose di andare da sua sorella a prendere prodotti da merceria, sicura che lei, perlomeno, l’avrebbe mangiata viva, lontano dallo sguardo di tutti, ed in un solo boccone, con discrezione.

Mariuccia non si mostrò riluttante di fronte a quell’invito: ali di Mercurio ai suoi piedi ed eccola raggiungere un castello diroccato in un baleno.

La sua reazione iniziale? Sentì, da subito, una minaccia incombente da ogni angolo della dimora regale: d’istinto, però, quando vide la coda di un drago strisciare per terra, prese il primo figlioletto serpentino, contro cui era inciampata, accidentalmente, per gettarlo in una fornace ardente, non lontana da lei, e scapparsene, dipoi, a gambe levate ma con la lucida prontezza di acciuffare, nella corsa del rientro, un folto paniere sartoriale che, ad onore del vero, aveva già visto, appena entrata.

Nel momento in cui la draghessa la vide arrivare sana e salva, si meravigliò che sua sorella non l’avesse maciullata tra i suoi denti e partì per chiederle spiegazioni.

Arrivata al cancello infernale, sentì urla selvagge vomitare fuoco in ogni direzione, mentre da una rupe una fiumara di acqua putrida iniziò a scorrere furibonda, trascinandola senza pietà ed annegandola.

In quello stesso istante il cielo diventò più terso: l’incantesimo si sciolse e la famigliola si ricompose senza bue ed asinello, con la sua Mariuccia ed il bel Marcavallo, non più cavallo (per sortilegio rovesciato), attorno al loro bambinello.

Prof. Francesco Polopoli

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