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Il mito della caverna nel dialetto lametino

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Il mito della caverna nel dialetto lametino

«Chillu ch’᾿un sa è cumu chillu ch’᾿un bbidi», ovvero «quello che non sa è come colui che non vede»: morale vernacolare!?

L’incultura manca di visione perché cieca: ecco il frutto della sapienza popolare condensato in una pregevolissima massima, che afferma per negazione, con l’espediente retorico della litote, diremmo tecnicamente.

Una precisazione: non trascuriamo il fatto che ci possa essere contemporaneamente una saggezza fasulla da miopia autoreferenziale: certi ambienti da salotto la sanno lunga, facendo rima con un bieco analfabetismo di ritorno, eh già! Che dire, in questi casi, se non che «si tiranu cum’i cicati»: invalidante, pure, la cosa, col paradosso di capacità mandate a strabenedire. Premesso ciò, pur sapendo di limitarmi ad una lettura epidermica delle cose, da Magnogreci quali siamo, per nostra feconda tradizione, come non riportare, a questo punto, sotto ai nostri occhi il notorio mito della caverna?

All’inizio del VII libro della Repubblica di Platone, Socrate propone a Glaucone una lettura allegorica della realtà umana, sospesa sul filo precario di una labilissima scelta, quella tra la luce e l’oscurità, tra la sapienza e l’insipienza: «dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della spelonca, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da  poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. – Vedo, rispose. – Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono. – Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita? – E per gli oggetti trasportati non è lo stesso? – Sicuramente. – Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni? – Per forza. – E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa? – Io no, per Zeus!,  rispose. – Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali. – Per forza, ammise. – Esamina, invece, se potessero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza».

Che succederebbe, vi chiedereste!? Non scambierebbero di certo lucciole per lanterne, senza capire fischi per fiaschi. Saper e sapersi ascoltare non è meno del volgersi all’apprendimento, filosofia docet, da millenni! Sennò, ci aspetta un cul-de-sac, cioè una strada senza uscita, e in quel caso il fattore C non ce lo avremmo proprio, assolutamente no!

Prof. Francesco Polopoli

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