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La montagna è donna: la storia di Conturina

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La montagna è donna:la storia di Conturina

Spoilerando un po’, è il caso di dire di lei, già da subito, che è una roccia, senza il cuore di pietra, però!

Prima di romanzarne la vicenda, mi sembra giusto raccomandare agli internauti un’attenta lettura delle fonti lette, perché non sempre di un autore (favolista, in questo caso) si riporta integralmente quanto trasmesso.

A volte si approssima, senza citare neppure un’opera di riduzione (forse questo è il male minore!): tuttavia, non si possono stravolgere le consonanti di un nome e cognome, ne verrebbe un «rebelot», come dicono nella bergamasca, e qui il peccato si fa di gran lunga capitale: immaginate la licenza licenziosa nel dire Dante Alghero, Franco Petracca, Giovanni Boccuccia, ridicolo, no!? Per non parlare di altri casi in cui quanto vergato (a penna digitale) ha una stentatissima comprensione, sicuramente per errata digitazione delle parole: è quanto auguratamente voglio pensare tante volte.

Perché!? Sappiamo tutti quanto il t9 sia nelle messaggerie un an-alfabetizzatore artificiale: galeotto è il software con cui persino una persona di discreta cultura inavvertitamente scrive cose come “c’è la faccio” oppure “il bisogno di programmare è organizzare il lavoro” e simili oscenità. Eppure tempo di fare una ripassatina non sarebbe una fatica di Ercole, non credete!? Va be’, passiamo oltre. Urge una nuova era filologica in cui il compito di ognuno consiste nel correggere il correttore (V. Crupi): per questo sia benvenuta ogni occasione, come questa del sistema t9, e non solo, che ti costringe a fare della filologia occasione di ricostruzione testuale (P. Colace). Detto ciò, sperando di non aver tediato, perché l’ho tirata per le lunghe, restituisco per filo e per segno una fiaba montanara, che è una di quelle perle meravigliose che ricordo con piacere, tra l’altro letta, mentre da piccolo, come tutti, guardavo la nostra altrettanto piccola Heidi.

Insieme all’opericciola, che garbatamente me la custodisce, è presente un’immagine, sbiadita, sì, ma fedelmente originaria (per la cronaca, non c’è su internet, e qui sfato l’idea che il web possa essere il contenitore di tutti saperi, come intendono tanti wiki-sostenitori):

«Nella Valle di Contrin, adagiata ai piedi dell’immensa parete verticale della Marmolada, vive ancora il ricordo della leggenda di Conturina, la bellissima fanciulla vittima della propria bellezza e dell’odio della matrigna.

La matrigna di Conturina era una nobile e ricca signora, padrona di un castello e madre di due brutte ragazze.

Molti principi e giovani cavalieri venivano in visita al castello; tutti ammiravano Conturina e nessuno si occupava delle altre due.

La matrigna, alla quale ciò dispiaceva, un bel giorno ordinò a Conturina di non pronunciare una parola in presenza degli ospiti. E disse a tutti che la ragazza era stupida e muta.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

Allora la matrigna ordinò che, quando vi fossero ospiti in casa, Conturina restasse sempre perfettamente immobile. E disse a tutti che la figliastra era muta e paralitica.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda. E sempre più apparve ai loro occhi attraente.

La matrigna, furente, mandò a chiamare una strega, la quale con un incantesimo trasformò Conturina in pietra.

Tutti si innamorarono della statua bellissima.

Allora la matrigna ordinò che la fanciulla impietrita venisse portata sopra un’altissima rupe, che domina il Passo di Ombretta, che venisse infitta nella roccia e abbandonata lassù.

E così fu fatto.

Mesi ed anni passarono senza che nessuno sapesse dove era andata a finire la povera Conturina.

Dopo alcuni anni, fra i pastori si cominciò a dire che nella solitudine della Val d’Ombretta, qualche volta si udiva cantare una voce di donna.

Era una voce dolce e soave, una voce che pareva pregasse e piangesse, una voce che pareva si raccomandasse al ricordo di chi l’ascoltava.

E una notte un giovane soldato, che era di sentinella sul passo, nel silenzio profondo riuscì a comprendere anche le parole del canto, nel quale Conturina raccontava la sua storia. Il soldato le gridò che allo spuntar del giorno si sarebbe arrampicato su quella rupe per liberarla. Ma Conturina gli rispose che era troppo tardi.

Nei primi sette anni sarebbe ancora stato possibile liberarla, ma alla fine del settimo anno l’incantesimo si era fatto insolubile e nessuna forza umana sarebbe valsa ormai a staccarla da quella rupe, dove ella era destinata a rimanere per sempre.

E così fu.

Qualche volta, chi passa per quel deserto di rocce che è la Valle Ombretta, specialmente di sera, ode ancora il mesto canto della povera Conturina, quel canto fatto di dolore che narra le tristi vicende di una ragazza cui la bellezza diede solo infelicità».

(G. F. Wolff)

Una curiosità: qualcuno è stato capace addirittura di riportare in dialetto ladino le parole dell’infelice personaggio di questa fiabetta, cioè «son de sas e no me meve, son de crepa n Marmolèda, son na fia arbondonèda e no sé perché rejon» («sono un sasso e non mo muovo, sono di roccia nella Marmolada, sono una figlia abbandonata e non so per quale motivo»).

Qualche altra osservazione, invece, penso che emerga da sola leggendo il brano succitato: quanti di noi sono soliti dire «restare di sasso (o di pietra)»? Alla base, senza dubbio, c’è la matrice classica: chi non ricorda il mito di Medusa? Una delle tre sorelle Gorgoni con serpi velenosi al posto dei capelli ed uno sguardo capace di pietrificare chiunque lo affrontasse.  Soltanto l’eroe Perseo, incaricato dal suo re di portagli la sua testa, riuscì a decapitarla, utilizzando uno specchio per non guardarla direttamente in viso. A questo punto, qualcuno potrebbe dire: per quella stessa espressione si può usare pure «rimanere di stucco»; bè, il quadro non cambia dal momento che il significato è il medesimo. Ritrovarsi stupefatti, immobili e imbambolati per lo sbalordimento, come statue di gesso: siamo comunque in tema! Per non parlare della forma «restare di sale», che dà l’idea di questo trasecolamento da impietriti, senza essere fisicamente insassati, intendiamoci! L’origine di quest’ultimo modo di dire è da ricercare in un racconto dell’Antico Testamento. Più precisamente si fa particolare riferimento alla moglie di Lot (Genesi, 19, 24-26), che fu trasformata in una statua di sale perché, nonostante l’espresso divieto divino, si era girata indietro a guardare le città di Sodoma e Gomorra che venivano distrutte dalla collera di Dio. Eh, con questo girarsi, mannaggia, quante cose sono accadute, poffarbacco! Rimando ad Euridice, solo per accenno, anche se a lei è toccata una sorta peggiore, quella di diventare un fumo d’ombra per sempre.
Insomma, per non farla lunga, tra la Grecia e la religione giudaico-cristiana, le nostre radici ci presentano un ottimo Resto, che non è quanto meccanicamente rimane al bancone acquisti ma la coniugazione di un verbo creativo e ricreativo da flettere per ognuno di noi. Indicativo, cioè prescrittivo di un’indicazione che vale per sempre. L’esempio è il racconto orale proposto dove il mitologico ed il biblico ci consegnano una fiaba singolarissima, che auspico abbiate il tempo di trasmettere a chi vogliate, specie in questo periodo, dove pare infuriare solo questo stramaledetto coronavirus. Spezziamo il ghiaccio che ci cristallizza, allora, per dirigerci al largo: quest’impasse che stiamo vivendo sembra una potenza elevata ad ambasce di ogni genere. Io resto a casa con libri da far paura, con un’iperbole positiva, chiariamoci!

Francesco Polopoli

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