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MusicaAMACalabria Festival. Gabriele Lavia e la parola poetica di Leopardi

5 min di lettura

In scena a Lamezia Terme dal 7 al 16 ottobre 2021, il 43° MusicAma Calabria Festival ideato e organizzato dall’Associazione culturale AMA Calabria con la direzione artistica di Francescantonio Pollice

Il 43° MusicAma Calabria Festival è uno dei progetti vincitori del bando della Regione Calabria nell’ambito dei Grandi Eventi – PAC 2007-2013 -Scheda nuova operazione n° 7.  Ben 45 eventi in cartellone realizzati in diverse location della città di Lamezia Terme con ospiti nazionali e internazionali di assoluto prestigio nel campo della musica classica, della danza, del canto, del teatro; installazioni d’arte; escursioni e una web guida con le eccellenze enogastronomiche regionali.

In scena, il 15 ottobre 2021, al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme, Gabriele Lavia “dice” Leopardi. “Dice” perché restituisce alla parola poetica la sua originaria carica espressiva ricordando la tradizione orale della poesia cantata dagli aedi e dai rapsodi e che solo successivamente diventa parola scritta, pagina.

La poesia è sì emozione e scrittura, ma si rinnova nel suono e nel significante ogni volta che viene pronunciata. Quando la poesia scritta diventa poesia detta, i suoi significati si smuovono, diventano vita. E il pubblico che ascolta vuole proprio vita, esistenza, cuore umano messo a nudo.

La poesia, nell’atto del dire, offre allo spettatore la sconcertante visione della forma deflagrata di un meteorite. Una poesia sulle rose può risultare più problematica e impegnata di un semplice grido, una poesia sull’amore può rivelare più cose sul mondo e sulla vita che non la diretta enunciazione di un sentimento di protesta.

E così Il sabato del villaggio si scoprirà essere la poesia più amara di Leopardi, ben diversa dal bozzetto campestre che si continua a studiare a scuola. Le improvvise profondità metafisiche che si aprono nella tessitura del testo spingono all’indagine continua che genera interrogativi senza fornire risposte certe, solo dubbi. Nel tentativo di cogliere l’intima sostanza primigenia, Lavia, con distacco sereno e antiretorico, costruito su una fitta trama di riferimenti e citazioni ne ordisce una analisi non convenzionale con un tocco noir. Perché la “festa” di Leopardi è complessa. È una sorta di liberazione dalla vita. È la morte.

L’attesa del dì festivo si trasforma in un inquietante corteo di maschere meste anticipato dal fascio d’erba che la donzelletta tiene sotto il braccio, metafora dei giorni che le restano da vivere e che concettualmente rimanda alla chiosa pirandelliana de L’uomo dal fiore in bocca “[…] E mi faccia un piacere, domattina, quando arriverà. Mi figuro che il paesello disterà un poco dalla stazione. – All’alba, lei può fare la strada a piedi. Il primo cespuglietto d’erba su la proda. Ne conti i fili per me. Quanti fili saranno, tanti giorni ancora io vivrò. Ma lo scelga bello grosso, mi raccomando.”

La vecchierella seduta sull’uscio e intenta a filare insieme con le vicine ricorda, plasticamente, l’immagine delle tre Parche. All’imbrunire rientra il zappatore. Cosa ha scavato? Forse una fossa in terra sconsacrata che deve contenere il corpo di un suicida o di una suicida perché i suicidi devono essere seppelliti la notte? E perché il legnaiuol è chiuso nella sua bottega a terminare un’opera che dovrà essere consegnata prima dell’alba? Sta forse costruendo una bara?

Dire Leopardi pone una serie di problemi che spesso gli attori danno per risolti, solo perché non penetrano nei diversi livelli di lettura caratteristici in opere di questa portata, con un senso di complessità che si dirime in armonia e in pienezza linguistica.

E così il “dire” di Lavia è voce che scivola sull’acqua, è parola offerta nella sua purezza. Le liriche che formano la sostanza vocale scorrono senza soluzione di continuità con una sorta di andamento epico che dà corpo al “sentire” leopardiano: Passero solitario, La sera del dì di festa, A Silvia, A sé stesso, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

Lavia appare poeticamente investito dalla coscienza dell’autore. Non un reading, come vanno tanto di moda oggi. Nessun leggio, nessun copione ma tutto, rigorosamente, a memoria. Senza una sbavatura, una dimenticanza, una incertezza. Come fanno coloro che appartengono alla ormai esigua dinastia degli attori veri, quelli avvezzi al Teatro sia sotto il profilo interpretativo che della globale disciplina di palcoscenico.

Solo qualche pausa nell’ininterrotto flusso poetico per assaporare la perfezione e la bellezza del primo verso de La sera del dì di festa Dolce e chiara è la notte e senza vento e per scoprire che, nelle Ricordanze, è tutto un “rimembrare”. Leopardi rivive nelle sue membra, sente sulla sua pelle la sua vita infelice. “Rimembra” il suon dell’ora/Dalla torre del borgo che gli era di conforto nelle notti insonni e i giorni della giovinezza ma una sola cosa “ricorda”, riporta al cuore: Nerina che, come tutte le donne che appaiono nelle sue poesie, è la sua speranza che muore.

E ancora il Leopardi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia in cui il pensiero filosofico si fonde con quello poetico generando la presa di coscienza attraverso il dolore […] e quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? che vuol dir questa / solitudine immensa? ed io che sono? / Cosí meco ragiono…

Si conclude con L’infinito in cui la speculazione filosofica è pari alla bellezza poetica della lirica. Lavia compie una sorta di “indiamento” penetrando nella contemplazione leopardiana. Il perimetro scenico diventa uno spazio mentale in cui si enuncia la visione attraverso le parole che vengono scardinate fino al loro etimo per essere restituite nella loro polisemica interezza.

Dopo un simpatico siparietto, durante il quale il pubblico viene invitato a recitare il celebre idillio, Lavia ne offre una delle versioni più belle mai ascoltate.

Egli non declama, non si produce in toni aspri e disuguali, in parole smorzate, cantilene, forzature, accentuazioni o arbìtri fonici. La sua è perfezione vocale, dizione pulita che solidifica lo scritto, lo slarga, lo apre, lo scandisce con ritmo asciutto e lo offre al pubblico nella sua antica verità senza intenti celebrativi ma con la necessaria intensità dove il fascino (immutato) dell’attore non prevale mai sul senso di ciò che dice. Il linguaggio leopardiano, come pervaso dalla luminosità della ragione, è portato alla sua essenzialità risultando immediatamente credibile e la poesia si confronta con la parola scenica che arriva duttile alla mente degli spettatori, senza il meccanismo del compiacimento e senza ridondanze, come una rigorosa partitura musicale.

Un immenso Lavia per un infinito, modernissimo Leopardi. Un’esperienza di puro godimento estetico.

Applausi e ancora applausi.

Giovanna Villella

[ph_Federico Losito. Courtesy AMA Calabria, Lamezia Terme]

 

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