Lo spettacolo di Nando Brusco ha inaugurato la tre giorni al Tip Teatro
3 min di letturaAl Tip Teatro si è aperto il sipario su “Fatti di parole – Il teatro fra scrittura e narrazione”, una tre giorni di spettacoli e incontri curati dal Teatro Proskenion in sinergia con Scenari Visibili.
Ad inaugurare la rassegna lo spettacolo “Tamburo è voce” di e con Nando Brusco del Teatro Proskenion.
Sul palcoscenico del Tip il cantastorie calabrese si è esibito in un viaggio nella cultura popolare e nella memoria orale della sua terra.
Intorno al cerchio magico del tamburo rivivono storie e leggende del Mediterraneo, offerte al pubblico in forma di canti, filastrocche, cunti. «Non è detto che i cantastorie raccontino sempre il presente – dice Nando Brusco sul palcoscenico – a me piace guardare al passato, capire da dove vengo per conoscere meglio la realtà che mi circonda».
Uno spettacolo che inizia con alcune strofe della strina, tra le più note tradizioni calabresi, specie di questo periodo, e si chiude con lo stesso canto propiziatorio.
A suono di tamburo, strumento che è ventre materno, forza generante e voce narrante dell’umanità, lo spettatore è stato coinvolto in un viaggio emozionante tra mito e realtà, tra voce e tamburo.
Tramandare storie, proprio come nell’antica tradizione orale, tornare all’arkhḗ, al principio, per conoscere se stessi e la propria terra.
Oggi le attività riprendono alle 16.30 con l’incontro aperto al pubblico “Narrazione e comunità”: se il teatro racconta a cura di Emi Bianchi (Confine Incerto) e Nando Brusco (Teatro Proskenion).
Attraverso la pratica della narrazione da sempre le popolazioni di tutto il mondo hanno trasmesso alle generazioni successive l’interpretazione del mondo e il senso del loro stare nel mondo.
Il teatro, da questo punto di vista, può diventare luogo riconosciuto nel quale conoscere e ri-conoscere i tratti di un’appartenenza.
Alle ore 21.00 spazio alla scena con lo spettacolo “Lamagara” di e con Emi Bianchi (Confine Incerto).
La storia è quella della calabrese Cecilia Faragò, l’ultima fattucchiera processata per stregoneria nel Regno di Napoli. Una microstoria che si affaccia dal passato, un urlo di redenzione da quel mondo di storie disperse che formano la memoria negata del genere femminile.
Un linguaggio denso e terrestre come humus, impastato di un materiale verbale pieno e screziato dove il corpo è utilizzato come strumento della narrazione che coinvolge lo spettatore in una esperienza sensoriale potente, poetica e parossistica.
Lo sguardo di Emanuela Bianchi diventa parola, genesi, riscatto di una verità selvaggia, processata dalla storia.