Niño o dell’amore che non fu
6 min di letturaLamezia Terme, 8 aprile 2017. Al TIP Teatro, per la XIV edizione della rassegna Ri crii diretta da Dario Natale, in scena NIÑO scritto e diretto da Tino Caspanello, con Cinzia Muscolino.
Lei sta seduta su una seggiola di legno azzurro, di quelle con le spalliere alte, un oggetto-segno che di volta in volta diventa seduta-rifugio o parapetto di nave. Indossa un abito a fiori leggero che sa di primavera e un golfino candido.
Siede di profilo e tende le mani piccole, delicate “Vedi, il ricamo deve essere ordinato, bisogna saper guidare il ricamo anche da sotto.
Ago dritto, mani pulite e luce, tanta luce per non sbagliare… quello che è bello davanti deve apparire bello anche dietro… bisogna contare i punti un, dos, tres…un, dos, tres… ti insegno come si dice ricamo in spagnolo… buenas dias, graçias, mujer… si dice bordado e bambino come si dice? In sottofondo il pianto di un neonato.
Principia così questo racconto di una piccola vita. Una storia di emigrazione femminile dimenticata, come tante, che la penna di Tino Caspanello e la voce di Cinzia Muscolino hanno tolto dall’oblio restituendola alla memoria collettiva attraverso il teatro.
Rocchenere, frazione del comune di Pagliara (ME) e Buenos Aires, Argentina legate dalla storia di un’anima semplice che amava ricamare e prendersi cura dei bambini di strada.
Una storia tenera e amara, dolce e terribile dove il destino individuale si intreccia inevitabilmente con la grande Storia.
La scrittura di Caspanello non è un ricamo a punto pieno, fitto, ordinato, regolare quanto un lavoro di sfilato siciliano fatto di pazienza, di precisione e sottrazione, giocato sulla trasparenza e sulla simmetria dei vuoti e dei pieni.
Ed è proprio in quei “vuoti” che la parola diventa lirismo sussurrato, memoria instabile, tempo sospeso tra presente e passato. Follia poetica.
Le parole, affidate alla voce di Cinzia, ci vengono offerte come un dono “ A me la fortuna è arrivata nel giardino dei limoni, una mattina d’estate… Alto, bello, elegante. Veniva dall’Argentina, Buenos Aires.
Il suo ultimo giorno di vacanza. Il suo giardino confinava con il nostro. Io lo accompagnai. Il mio destino doveva andare così quella mattina… Ma con tutte le donne in Argentina proprio me doveva scegliere?…
Forse qualcuno gli aveva parlato di me. Vista e presa. Non si può stare troppo da soli. Mio padre gli strinse la mano, lui scostò la testa, mi sorrise e non lo vidi più.
Non lo avrei più visto per 10 lunghi mesi… Procura? Sposarmi per procura? Con chi?… Mi sarei sposata al paese e il giorno dopo sarei partita da sola per raggiungerlo… io che conoscevo appena una casa, quattro strade e il giardino di limoni. Io, su una nave nell’oceano…”
Eppure questo sogno non cercato, non desiderato ma arrivato così all’improvviso, diventa il “suo” sogno. Perché rinunciare all’amore? “Un matrimonio, una valigia e il mio abito da sposa, cucito con le mie mani, fatto con la seta di un paracadute trovato in campagna durante la guerra. È bello vero?
Sì, è ancora bello… 10 mesi sono lunghi ma passano in fretta tra pezzi di stoffa da tagliare, tra gli abbracci e i pianti di tutti… il vestito non è ancora pronto. Avete pulito sotto mamma? Avete attaccato il nastro bianco? E gli animali dove li avete messi? E i bambini? Promettetemi che almeno un’ora al giorno li portate a casa.
Toglieteli dalla strada, me lo promettete? Ieri mi hanno portato un mazzolino di fiori di zagara. Chissà se ci sono i limoni in Argentina. Il matrimonio? Niente di speciale, cioè io ero emozionata ma ero sola, suo fratello accanto a me era muto, alla fine mi strinse la mano, “tanti auguri” mi disse. Venne tutto il paese a salutarmi e a portarmi regali, quello che potevano, un pezzo di stoffa da ricamare, un nastro per i capelli.
Ho messo tutto in valigia, non occupavano tanto spazio. Mia sorella mi tiene la mano tutto il tempo e accanto a me i bambini scalzi attaccati al mio vestito con in mano un pezzo di dolce e gli occhi lucidi…”
Alla nostalgica dolcezza del ricordo del suo matrimonio, senza sposo, ma circondata dall’affetto dei suoi cari, subentra l’angoscia del lungo viaggio e la memoria comincia a vacillare con una voce che viene da dentro “Il giorno dopo alla stazione sul mare mi accompagnarono mio padre, mia madre e mio fratello… Quanto è durato il viaggio, lo ricordi? Che stupida non eri ancora nato, non puoi ricordarlo. Forse giorni, mesi… non lo ricordo. Non son vecchia ma c’è qualcosa sulle spalle e qua (indicando il cuore) che mi pesa
[… ] Mare calmo, piatto, nessun alito di vento. Giorni e giorni sempre uguali. Sembrava che il tempo si fosse fermato. Mare, solo mare, sempre mare oltre lo sguardo, oltre il tempo. Speravo di arrivare, io cantavo di notte perché ero giovane, cantavo per il mio sposo lontano. Alto e superbo che mi scriveva parole che imparavo a memoria. Mi si sono asciugate dentro come il nostro torrente d’estate, come il latte nel seno che non può più allattare.
Ecco le ho conservate per te, per quando sarai grande… ma forse sei già grande o non lo sei mai stato. Ma non aver paura , ti insegnerò a scrivere per ingravidare la tua anima di parole come si ingravida una donna per partorire nell’infelicità del silenzio…
E la memoria riprende il suo moto circolare. Un matrimonio per procura. Il mare che unisce e divide nel momento del sì mentre lui stringe l’anello nella tasca della sua giacca nuova. Blu la grande nave, blu come il mare di notte, blu come il vestito che si era fatta cucire per il grande viaggio…
“L’ultimo giorno di viaggio sentii un grido soffocato, un altro e un altro ancora. Erano grida ma anche note. Era un dolore e una musica, la mia musica di nozze…
L’arrivo tra grida e grida. Non trovavo il fazzoletto, qualcuno mi mise in mano un pezzo di stoffa bianca e mi misi subito a sventolare.
“Piano, piano, è appena nato non è un fazzoletto.” Tra quelle pieghe c’eri tu.
“Di chi è questo bambino?” non rispondeva nessuno. Nessuno mi guardava. Non si poteva fare caso a una donna che urlava disperata.
Mi vide così il mio sposo mentre ti tenevo tra le mani e non avevo mai conosciuto l’abbraccio di un uomo. “Di chi è questo bambino? Di chi è questo figlio?”
“Perdonami. Potrai mai farlo? Io ho perdonato tua madre che ha scelto me per salvarsi”
Mi vide così il mio sposo con un bimbo tra le braccia, un figlio non mio non suo, mentre alle spalle arrivava la notte. Non ci fosse stata la notte sarei corsa e tornata nel giardino dei limoni…
Ti abbandonai in quel purgatorio di attese e poi seguii le sue spalle con la mia valigia. Il letto era pronto, con una spinta m ritrovai con la faccia al soffitto.
“Portami da un medico”, non mi ascoltò.
Mi entrò dentro e a niente servirono dolore e sangue e fu l’inferno che si inghiotti l’oceano, il giardino di limoni e le quattro case sulla collina.”
Piccola donna dalle mani di fata odorose di limoni e generose di carezze tu lo avevi detto “Ma nessuno ha voluto conoscere la verità perché è come un mostro che sta nel fondo del mare, all’improvviso emerge e ti strappa la vita proprio nel momento in cui la vita ti sta raccogliendo.”
A te quella vita, a cui tu non chiedevi nulla di più di quello che avevi, ti ha strappata al tuo giardino e ai tuoi bambini, ti ha denudata, violata, umiliata, piegata ma non vinta. Piangevi ma nessuno ha mai pianto per te, eppure tu, incurante dell’indifferenza del mondo, con il tuo sottile ago da ricamo hai cercato di ricucire i fili di un’esistenza ormai lacerata cercando di recuperare nella vacillante memoria le parole in spagnolo della tua vita-non-vita “Bambino, ma come si dice bambino, eppure era qui insieme a tutte le altre parole” mentre le note struggenti di “Yira Yira” di Enrique Santos Discépolo ti accompagnano in sottofondo unitamente ai nostri applausi.
Una pièce struggente con il dono della leggerezza.
Giovanna Villella