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Non chiamatela musica popolare

8 min di lettura

Vacantiandu 2018, seconda edizione del progetto Vacantiandu con la direzione artistica di Diego Ruiz, Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta.

Il progetto, finanziato dalla Regione Calabria per il triennio 2017-2019 nell’ambito degli interventi tesi a valorizzare i luoghi di interesse storico e archeologico e promosso dall’Associazione teatrale I Vacantusi di Lamezia Terme, ha proposto per la rassegna estiva un ciclo di concerti di Pierluigi Virelli.

Quattro gli appuntamenti: a Cleto nel Castello di Savuto, a Nocera Terinese nel seicentesco Convento dei Cappuccini, a Motta S. Lucia in Piazza Castello e a Jonadi (VV) in Piazza Santa Tecla nella frazione Nao.

Tre i concerti in cui Virelli è stato accompagnato dai bravissimi musicisti Fedele Pingitore (batteria) e Francesco Mancuso (organetto e fisarmonica) e un concerto-seminario da solista.

“Non chiamatela musica popolare ma musica di matrice orale”, così ama aprire i suoi concerti Pierluigi Virelli che è cantante e polistrumentista, ricercatore etnografico e promotore della cultura calabrese più arcaica. Dopo le tante esperienze all’estero e le numerose collaborazioni con artisti internazionali è tornato in Calabria con l’obiettivo di recuperare e promuovere i “suani” antichi e obliati della regione. La sua ricerca musicale si svolge vivendo a stretto contatto con il mondo agro-pastorale calabrese e questo gli ha consentito non solo di apprenderne il repertorio ma anche le tecniche di costruzione degli strumenti e la loro funzione sociale.

Suoni tradizionali con una esecuzione contemporanea affinché la musica non sia “congelata” e così gli strumenti della tradizione quali la pipita, il marranzano, la fisarmonica, l’organetto, il tamburello e la chitarra battente dialogano con strumenti  moderni come la batteria e la chitarra acustica (la sua inseparabile Seagull) che intona un canto di “spartenza” su quella “Merica luntana” magistralmente raccontata da Mimmo Gangemi nel romanzo La signora di Ellis Island o canta l’amore Pe’ ttia ne’ muoru.

La chitarra battente accompagna tarantelle  e serenate come Guarda dispettu chi mi fa la luna, sospiri di un amore felice o geme di sdegno per un amore tradito.

La fisarmonica chiacchiera con la chitarra al ritmico controcanto della batteria in una sorta di filastrocca irridente tipica del Marchesato che narra del matrimonio tra un certo zu Giuanni che sposa la za Micuzza con una testa grande come na cucuzza.

E ancora la versione calabrese della celeberrima Malarazza portata al successo da Modugno e omaggi alla cantastorie siciliana Rosa Balistreri con il canto d’amore “Cu ti lu dissi” e al cantautore napoletano Eugenio Bennato con “Brigante se more”, esortazione al risveglio e al riscatto della propria terra. Una “zingarata” a suon di pipita e un “cantu all’abballu” con tamburello e fisarmonica.

Concerti  intensi e carichi di ritmo con un repertorio vastissimo di canti di amore, di sdegno e di “spartenza”, serenate (anche tristi), “zingarati” e “sunati all’abballu”. Imperdibili occasioni di ascolto che nel suo concerto-seminario si trasformano in  affascinante narrazione.

Una narrazione che rifugge dalla tentazione nostalgica per offrire la varietà sonora di cui la Calabria è ricca. “A me piace vivere per addizione” dice Virelli, riprendendo la felice definizione di Carmine Abate. “Il fatto di suonare un organetto o un tamburello non significa essere automaticamente un suonatore di musica calabrese. Io suono la chitarra elettrica, ho un sintetizzatore, un programmatore e un computer ma  faccio questa musica perché ho la consapevolezza di cosa sia l’intenzione musicale ovvero suonare musica di matrice orale. La Calabria, nel Mediterraneo, è la regione con il maggior numero di strumenti e di ogni strumento ci sono varianti locali e uno straordinario corredo sonoro eppure per molto tempo la Calabria stessa ha disconosciuto la propria cultura orale e musicale ritenendola denigrante. Invece questa ricchezza e varietà di strumenti è invidiata da tutti e questo ha permesso di avere un repertorio vastissimo di canzoni… L’ondata modaiola dell’ascolto della cosiddetta musica popolare non deve far perdere la percezione che la varietà vada difesa, non può esistere un solo dialetto per tutta la Calabria. La differenza è sinonimo di libertà. Riunire tutto in una unica lingua significherebbe impoverirsi, appiattirsi…”

Di questo variegato paesaggio sonoro, sound landscape, Virelli ne intesse un racconto tra il favolistico e il bucolico, diventa un “cercatore di memorie sonore” e ricrea i suoni arcaici delle Calabrie da Mesoraca a Trebisacce, da Longobucco a Rocca Bernarda come un viaggiatore del Gran Tour.

E così scopriamo che il marranzano o malarrunu o scacciapensieri, piccolo tamburo suonato ritmicamente con un telaio in ferro battuto e una lamella in acciaio è uno strumento che, contrariamente a quanto si creda, non è di origine siciliana, è antichissimo e la sua musica potrebbe essere paragonata alla moderna techno.

E ancora che il flauto arcaico detto anche frischettara o zumpettana, era molto comune fino a qualche anno fa nella cultura agropastorale della Calabria. Si costruiva con la corteccia giovane degli alberi e aveva un solo foro. Era ritenuto uno strumento magico e sacro. Ha una melodia varia che deve essere prima “immaginata”, “composta nelle propria testa” e poi riprodotta soffiandoci dentro e variando la pressione del fiato. Già Pitagora aveva studiato questo strumento arrivando alla creazione del monocordo e ottenendo la scala musicale diatonica. Virelli ne offre una versione in plastica e ne fa un uso più contemporaneo.

Poi il flauto di canna, strumento più moderno con 5 buchi che è il flauto dolce di oggi. Ma un tempo gli uomini calabresi non si accontentavano di questo solo strumento, avevano esigenze e gusti più complessi, divini quasi perché per loro lo strumento era l’unico mezzo per mettersi in contatto con Dio. Ed ecco allora u masculu e la fimmina ovvero il doppio flauto altrimenti detto u frischiattu a dui le cui combinazioni armoniche sono di dolcezza incomparabile.

Tuttavia, con il passare degli anni la musica si è impoverita sia dal punto di vista estetico sia dal punto di vista qualitativo-funzionale. Infatti, mentre oggi la funzione della musica è recepita come mero divertimento o come attività commerciale o lucrativa, i sonaturi di un tempo, gente non colta dal punto di vista musicale ma capace di suonare decine di strumenti diversi, avevano il compito di portare nella quotidianità il brio, la freschezza della creatività, spezzando la monotonia dei giorni sempre uguali con la lietezza dei suoni per cantare e ballare creando gruppi di comunità.

In Calabria tanti strumenti sono arrivati dall’esterno o da altri strati sociali e poi sono stati adattati a seconda delle esigenze come la chitarra battente che discende dalla chitarra barocca, strumento aristocratico ma in disuso, infatti è durata poco ed è stato un flop a livello liuteristico.

Il popolo l’ha presa, ha praticato un foro in corrispondenza del settimo tasto e vi ha inserito una chiave di legno e un bordone, una corda acuta tirata tantissimo che riecheggia u cardillo, cioè la trombettina della zampogna.

Ne è nata così una chitarra contadina con 4 corde e uno scordino concepita per accompagnare il canto. È simbolo dello spazio domestico perché alla sera la famiglia si riuniva in cerchio davanti al camino e si trasmettevano oralmente storie e canti.

Poi arriva lo zuchi o cupa, altrove detto putipù o caccavella, un tamburo a frizione costruito con una scatola di latta ricoperta da una membrana di pelle animale e un bastone di legno che viene sfregato con una spugna bagnata. Emette vibrazioni lunghe e cavernose.

In Brasile si chiama cuìca ed è uno degli strumenti con cui si esegue la batucada durante il carnevale, l’asta però è interna e un tempo veniva usato nei villaggi per spaventare gli animali feroci e poi come strumento di richiamo dai cacciatori. In Calabria è uno strumento prettamente femminile.

Il giorno del martedì grasso le donne si mettevano alla cantunera e facevano le zuchiate cantando canzoni di scherno con rime e doppi sensi. Ma era anche lo strumento dei banditori e dei merciai e di solito veniva suonato da loro aiutanti per attirare l’attenzione delle donne.

Veniva costruito anche come giocattolo per i bambini e la membrana era spesso sostituita da un pezzo di tovaglia (mesàle) ben tesa.
E poi c’è la semplicità di quello che si trovava in casa, magari in un mobile o a terra e l’esigenza di produrre un “suono”, di fare musica, come una chiave e una bottiglia che si suona come il tamburo.


E ancora il tamburello, strumento straordinario perché dopo la zampogna e la chitarra battente, che sono i due strumenti di base, senza di esso non si balla e i vari modi in cui viene suonato sono sinonimo di diversità e di ricchezza.

Un percorso che attraversa tanti strumenti dal più arcaico al più moderno fino alla chitarra “francisa” detta così perché arrivata con i francesi e suonata, insieme con il violino, dai possidenti e dagli artigiani quali i barbieri e i sarti anche se i temi dei canti generalmente non variavano.

Ma il capitolo più suggestivo è riservato al racconto del pastore di Mesoraca “accordatore” di campane. Questo pastore riempiva le campane di saldature di stagno non perché avessero necessità di essere riparate ma perché ogni saldatura corrispondeva ad un accordo con una delle trombe (u turdu) della zampogna.

Una tradizione seguita da tutti i pastori che uscivano con il gregge e quindi avevano una orchestra che faceva loro da tappeto sonoro. La zampogna ha almeno 4 canne se non 5, due si suonano, una a destra e una a sinistra, queste corrispondono a due note, la prima (do) e la quinta (sol), questo intervallo nel periodo del canto gregoriano viene chiamato intervallo divino.

Oggi, nella musica moderna e nel jazz, viene detto intervallo perfetto perché è l’intervallo che il nostro cervello sa assimilare prima come bello, giusto e logico ed è l’intervallo che risuona di più come corpo che vibra.

Una concezione sonora straordinaria che dà la misura di quanto i pastori calabresi – anche se inconsapevoli – conservino ancora il sistema tonale dei Greci. È un sistema vago, indeterminato quasi come di un discorso sospeso o di una continua interrogazione che forse corrisponde intimamente alla loro natura semplice e contemplativa.

Si conclude con l’organetto e il suo suono “medioso” che imita il belato delle capre, animali simbolo della Calabria tante volte celebrati da Gioacchino Criaco nei suoi romanzi e in un ultimo stupendo racconto su due superbi esemplari di capri aspromontani chiamati il Licino per il colore quasi albino del pelo e il Cinto per la fascia nera intorno al ventre in contrasto col biancore del mantello.

E se è vero che “Il vero poeta è il popolo” come affermava il prete-poeta Vincenzo Padula, non è da farsi meraviglia che anche il popolo calabrese abbia sviluppato questa inclinazione verso la musica e il canto ingegnandosi con i materiali che la natura gli offriva per costruire i primi rudimentali strumenti. E l’uso di tali strumenti musicali ci indica come il nostro popolo, al pari degli altri, abbia da sempre coltivato queste arti a riprova della propria sensibilità d’animo.

A Pierluigi Virelli va il merito di essere non solo un  artista poliedrico ma soprattutto un divulgatore instancabile di eccezionale capacità affabulatoria. I suoi concerti/seminari sono una preziosa guida all’ascolto e le sue narrazioni sono racconti carsici che sottendono una solida preparazione tecnica ma soprattutto una cultura profonda e raffinata.

Giovanna Villella

[ph Pasquale Cimino | Patrizio Molinaro]

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